Il 3 agosto 2024 Mamadou Dian Balde, coordinatore per il Sudan dell’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), dichiara lo stato di carestia nel Paese, con particolare riguardo per la regione del Darfur Settentrionale. È l’apice di quella che si può ritenere la più grave crisi umanitaria attualmente in corso, la spietata proiezione reale della cruenta guerra civile che da due anni sta lacerando il gigantesco Stato africano.
Si potrebbe cinicamente argomentare che la totale instabilità politica è l’ineludibile cifra sudanese. E storicamente è proprio così: dall’indipendenza ottenuta dal Regno Unito nel 1956, la storia politica del Sudan si stempera malinconicamente in una sequela di colpi di stato a opera di estemporanei leader militari, ognuno deposto nel giro di pochi anni – o mesi – dal successivo. La catena si interrompe nel 1989, quando il generale Omar al-Bashir utilizza un astuto sistema di frammentazione del potere militare e clientelizzazione delle cariche istituzionali per ridurre al minimo il rischio di essere detronizzato.
La cruenta repressione interna è uno strumento di cui il dittatore fa largo uso e nella crisi del Darfur del 2003 sono gettati i semi della attuale situazione: gruppi di ribelli locali accusano al-Bashir di discriminazione violenta nei confronti della popolazione non araba della regione e lo Stato centrale reagisce subappaltando la gestione della crisi alla terribile forza paramilitare dei Janjawid, macabra protagonista di accertati crimini contro l’umanità e successivamente istituzionalizzata nella più formale sigla Rapid Support Foces (RSF), sotto il comando del generale Mohamed Dagalo, meglio noto con l’appellativo Hemedti.
La crisi del Darfour si disperde nel malgoverno di al-Bashir e nel 2018 la situazione volge al peggio per il dispotico leader quando un movimento di popolo richiedente a gran voce una transizione democratica induce Dagalo e il suo omologo generale Abdel Fattah al-Burhan – comandante dell’esercito regolare (Sudan Army Forces, SAF) – a deporre il presidente in carica. I due generali, dopo una dura repressione della rivolta, sembrano convenire sull’opportunità di istituire un governo democratico civile – anche grazie alle pressioni internazionali di USA, Regno Unito, Unione Africana ed Etiopia – e nel 2019 nominano primo ministro l’economista Abdallah Hamdok.
L’auspicata transizione tuttavia non si compie e Hamdok è costretto alle dimissioni dopo appena due anni. L’idillio diarchico dei due generali si interrompe bruscamente e il 15 aprile 2023 scoppia una violentissima guerra civile fra SAF e RSF. Il Sudan è ad oggi un paese in ginocchio: si è combattuto per mesi per il controllo della capitale Khartoum – tutt’ora disputata fra le due fazioni – e la guerra si è nuovamente estesa al Darfur. Il controllo della estesa regione occidentale è determinante per diversi motivi, che superano ampiamente i confini sudanesi, per trovare la loro spiegazione negli interessi locali sviluppati e protetti negli anni da diversi player internazionali.
Il Sudan è grande sei volte l’Italia e ha una popolazione di poco più di 40 milioni di persone. Il Darfur copre circa un quarto della superficie del paese, nella zona occidentale, ed abitato da 6 milioni di persone. Dal 2003 è l’epicentro del conflitto in questa regione
Il Darfur è infatti una regione ricchissima di risorse naturali come uranio, petrolio, acqua e soprattutto oro. L’industria estrattiva è estremamente sviluppata e la distribuzione del materiale segue prevalentemente canali illegali – attraverso Ciad e Libia l’oro esce dalla regione e raggiunge i mercati di distribuzione, primo fra tutti quello degli Emirati Arabi Uniti, dove subisce la lavorazione finale e viene venduto. Proprio gli Emirati Arabi sono storico partner del movimento condotto da Dagalo – che vanta un controllo finora stabile del Darfour – e regolare fornitore di armi e munizioni per la RSF. Diverse e motivate accuse di pesante intromissione nella guerra civile sudanese sono state mosse in sedi istituzionali alla monarchia del Golfo, ma finora senza esiti apprezzabili.
Un altro partner della prima ora delle RSF, titolare di importante concessioni minerarie nel Darfour, è il gruppo Wagner, contractor russo attivissimo in Africa da diversi anni. Dopo aver beneficiato di vantaggiosi privilegi ai tempi di al-Bashir, ha rinnovato la precedente partnership anche con Dagalo e favorito l’istituzione di proficui rapporti collaborativi fra il gruppo armato sudanese e l’establishment russo.
Come si vede, la convergenza di fortissimi interessi economici da parte di attori geopolitici – statuali e non – di importante caratura allontana pericolosamente una soluzione pacifica del conflitto. Forti interessi regionali non sono ancora stati indagati, ma sono destinati a portare ulteriore scompiglio nei fragilissimi equilibri dell’area – Khartoum è il punto di confluenza del Nilo Azzurro, proveniente dall’Etiopia, e del Nilo Bianco, proveniente da Uganda e Sudan del Sud, e l’Egitto dipende essenzialmente dal suo stato di conservazione per il suo intero approvvigionamento idrico.
Parimenti potrebbe essere un altro elemento di forte tensione fra Sudan ed Etiopia – da sempre interessatissimo osservatore delle vicende sudanesi – il mastodontico progetto di Addis Abeba del Grand Ethiopian Renaissance Dam, la Grande Diga del Millennio, destinata, una volta realizzata, ad irregimentare il flusso del braccio orientale del Nilo.
Sull’attuale crisi sudanese incidono infine gli effetti del riscaldamento globale, responsabili dell’estensione sempre più rapida della desertificazione dell’area Saheliana del Paese nell’area occidentale – ancora il Darfur dunque. Lo spostamento a Sud degli allevatori settentrionali in cerca di pascoli crea attrito e competizione per le scarse risorse con altre popolazioni, complicando ulteriormente una situazione già drammatica.
La guerra armata è inoltre penetrata con violenza anche nel Darfur stesso: oggetto di disputa è in queste settimane la città di al-Fashir, capitale della regione e determinante punto di snodo dei percorsi di esportazione clandestina delle risorse regionali sopra descritte. La tangibile importanza degli interessi in gioco non è una buona notizia per le popolazioni locali, costrette a lasciare i propri villaggi per sfuggire ai bombardamenti degli eserciti contendenti o, nella peggiore delle ipotesi, massacrate dopo criminali supplizi. Il silenzio inerte della comunità internazionale accrescere il senso di impotenza e solitudine delle accidentali vittime di questo conflitto, nella speranza che l’interesse dei potenti converga su una benefica quanto improbabile stabilità.
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