Se la sinistra non sa più come si va in piazza – Libero Quotidiano

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Sinistra e piazza è un binomio storico. Ma non tutte le piazze e non tutte le sinistre sono uguali. La piazza di oggi può essere paragonata a quella del vecchio Partito Comunista? Non è una questione solo di numeri, assolutamente non comparabili: oggi a manifestare sono solo poche migliaia di attivisti, anche se poi gli organizzatori gonfiano di prassi il numero dei partecipanti. La vecchia e immensa Piazza San Giovanni, ove Palmiro Togliatti arringava i militanti venuti da tutta Italia, non viene quasi più utilizzata e ha ceduto il posto alle più piccole e facilmente riempibili Piazze del Popolo o dei Santi Apostoli. La differenza è però di sostanza.

Un tempo in piazza ci si arrivava preparati, quasi come l’ultimo atto di un percorso che era partito dai leader e coinvolto solo uno stretto numero di dirigenti, nei quali il popolo comunista nutriva una fede quasi incondizionata. La piazza serviva per dimostrare la forza dell’organizzazione, l’unità e la coesione del partito intorno a idee precise, non solo per testimoniare un’appartenenza. Due erano i principi che muovevano il vecchio Pci togliattiano: da una parte, un’analisi seria e rigorosa della situazione politica; dall’altra, la capacità di elaborare proposte realistiche, cioè che tenessero in conto dei reali rapporti di forza interni e internazionali. La rivoluzione, ovvero il passaggio dalla società capitalista a quella socialista, era ovviamente l’obiettivo, ma il percorso era per forza di cose accidentato.

 

L’importante era non arrestarsi, far lavorare la “vecchia talpa”. L’impianto retorico dei discorsi dei leader che si alternavano sul palco seguivano non a caso un canovaccio preciso: si partiva dalla situazione internazionale, per misurare lo stato di crisi del capitalismo mondiale; se ne individuavano le presunte “contraddizioni”; se ne consideravano gli effetti sulla politica italiana; si elaboravano proposte che, inserendosi in queste contraddizioni, potessero essere favorevoli ad una evoluzione in positivo per la classe operaia. Quanto di tutto questo è rimasto nella piazza odierna della sinistra, ad esempio in quella convocata per il 15 marzo da Michele Serra e a cui ha aderito la leader del partito erede dei vecchi comunisti? La piazza mostrerà unità e coesione? Niente affatto. Le divisioni a sinistra sono così profonde e mai ricomposte che quel giorno tutti dovranno far ricorso alla più sfacciata ipocrisia, deviando casomai il discorso sul “fascismo” mondiale e su quello nostrano. C’è a sinistra un’analisi seria e rigorosa della realtà politica mondiale che vada oltre lo slogan “Trump no, Europa sì”? Non sembra.

Un Togliatti non si sarebbe certo limitato a dire che Trump era nazista, pericoloso, rozzo e violento (volendo anche lui sapeva esserlo): si sarebbe piuttosto chiesto perché gli americani lo hanno votato e perché apprezzano la sua azione. Avrebbe osservato che sta cambiando le carte nel mondo, ma si sarebbe posto la domanda su quali siani i suoi obiettivi. In tutto questo, c’è una proposta realistica, concreta, per cui si scende in piazza? Michele Serra, nel suo appello, scrive: manifesteremo «per l’Europa» perché «qui o si fa l’Europa osi muore».

Va bene, ma quale Europa? Prima di tutto bisognerebbe chiarirsi su questo punto, poi chiedersi se l’Europa che si sogna è la stessa che vorrebbero i popoli europei, infine capire su quali forze lavorare per far evolvere la situazione nel senso auspicato. Sono domande che nessuno si pone più a sinistra. Scendere in piazza è allora solo un modo per rassicurarsi, per sentirsi ancora parte di una tribù per quanto sempre più piccola e con le idee sempre più vaghe, per autocompiacersi e rimirarsi allo specchio come “belli e puri” in un modo di loschi e cattivi. Elias Canetti parlerebbe di una “massa chiusa”, ma qui nemmeno la massa c’è più.

 

 

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