Lei è esattamente come la vedi in tv, una Giamburrasca quasi ottantenne: l’età è lei stessa a dichiararla con la fierezza di chi dice: “Sono felice della mia vita”.
Peperina, vivacissima, non scalfita dal passare del tempo quanto a prontezza e entusiasmo. Una forza vitale, quella di Rita Pavone, ben espressa con una carriera eclettica e passaggi dalla canzone al cinema, dal teatro alla tv. Reduce dal talent televisivo Ora o mai più (dov’era la coach di Valerio Scanu), batte una strada inedita, presentandosi come autrice di una raccolta di racconti ispirati a un suo concept album del 1989. Gemma e le altre è il titolo del volume, edito da La Nave di Teseo, che la poliedrica Pavone presenta oggi alle 21 al Circolo dei Lettori.
Come mai, Rita, questo esordio nella narrativa?
«Sono stata fortemente spronata dall’editrice Elisabetta Sgarbi che ha ascoltato il mio disco e mi ha detto che quelle canzoni erano vere e proprie chicche. Mi ha proposto di trarne dei racconti, io ero perplessa, ma lei mi ha spronata: “Sono sicura che puoi farcela benissimo”. Mi succede spesso così, nella vita, se qualcuno si aspetta da me che alzi l’asticella lo faccio ed è come se tutto ricominciasse. Ora sono felicissima di aver scritto questo libro».
Che tipo storie sono quelle di “Gemma e le altre”?
«Sono storie di donne in cui si trattano temi che, evidentemente, nel 1989, anno in cui uscì il disco, erano un po’ troppo “avanti”, o forse nessuno si aspettava da me brani di quel genere, dove si parlava anche dell’amore fra due donne. Sono tutte vicende al femminile. Si parla di mogli che nel tempo vengono trattate dal loro uomo come parte dell’arredo casalingo, ma che non hanno il coraggio di andarsene per paura di rompersi in mille pezzi e di altre che, invece, alzano il dito medio davanti a una situazione insoddisfacente e rivendicano il loro diritto alla libertà, a vivere meglio».
Esperienze che lei non ha vissuto.
«Fortunatamente no, visto che sto per festeggiare 57 anni di matrimonio felice con Teddy Reno».
Lei ha affrontato l’arte nelle sue sfaccettature, non solo leggere: ha fatto cinema con registi eccelsi come Lina Wertmuller e teatro di prosa, accanto a Franco Branciaroli e Pino Micol nello shakespeariano “La dodicesima notte”. Il segreto di tanta versatilità?
«Purtroppo sono andata a scuola solo fino alla quinta elementare. Poi ho dovuto aiutare la famiglia, che viveva con l’unico stipendio di mio padre, operaio. Così, sono andata a lavorare in una camiceria di via Madama Cristina: stiravo camicie dalle 8 del mattino alle 7 di sera e, siccome ero piccolina, mi mettevano una pedana accanto all’asse da stiro e facevo su e giù: ho praticamente inventato lo step! Però ho sempre letto tantissimo, testi impegnativi. Oggi ho la casa piena di libri: i miei figli si lamentano perché continuo a comperarne. Parlo bene spagnolo, francese e inglese. Insomma, sono un’autodidatta, ma mi sono sempre data da fare».
Ancora oggi tiene in allenamento il cervello oltre che il corpo?
«Assolutamente sì. E poi ho un piccolo segreto che ho rubato a mio padre. Faccio regolarmente “La settimana enigmistica”. Cruciverba e rebus aiutano. Quanto al fisico, non ho mai fatto sport né ginnastica. Sono pigra e quando non lavoro starei sempre sul divano davanti alla tv. Forse mi aiuta il cibo: mangio di tutto, pasta inclusa, ma una sola volta al giorno, o a pranzo o a cena. Per l’altro pasto mi basta un frutto. Non è una dieta: è che il mio organismo non mi chiede altro».
Ha seguito il festival di Sanremo?
«Non tutto. A me piace soprattutto la sera dei duetti. Ho trovato bravissime Serena Brancale e Alessandra Amoroso».
Dove vive oggi?
«In Svizzera, da tanti anni, in una casa in mezzo ai boschi. Amo molto la natura e mi ci trovo davvero bene».
Lei è torinese. Le piace questa città?
«Moltissimo. Qui ho ancora un fratello e qui sono sepolti i miei genitori. Sono nata in via Malta 43, in zona San Paolo:, in un alloggio di due stanze, ma ho tanti ricordi molto belli che mi legano a quella casa. Mio padre era operaio alla Fiat e dopo un po’ci trasferimmo nel neonato quartiere Mirafiori: quando ci arrivai mi sembrò di essere a Beverly Hills. Inoltre l’appartamento era decisamente più grande e carino: non ci potevo credere. Quanto alla città, me la fece amare ancora di più il grande Macario, che adorava Torino. Mi permetto di fare un appello perché la città gli intitoli una via, una piazza o un giardino. Lo ricordi degnamente, come fanno Roma, Napoli o Bologna con i loro artisti maggiori»
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