Petrolio e lavoro: Basilicata in trappola

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E’ notizia di questi giorni l’archiviazione del procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale relativo al pozzo petrolifero Pergola 1 da parte del Ministero dell’Ambiente. La circostanza ha fatto emergere, ancora una volta e con maggiore evidenza, le contraddizioni di una regione che vive da decenni dentro una parentesi di sospensione del futuro. Tra dissonanze cognitive collettive e dicotomie irrisolvibili che frenano i processi di coesione sociale. Di questo passo non ci sarà mai la possibilità, sempre che qualcuno ci creda, di fornire un’identità allo sviluppo della regione. Identità che presuppone la risposta a una domanda epocale: quale sviluppo? In queste ore assistiamo al solito dramma in scena da oltre 30 anni: il conflitto, più o meno latente, tra lavoro e salute, tra economia e ambiente: una gabbia cognitiva che costringe a scelte di parte, a decisioni appunto impantanate nelle divergenze su base “egoistica”. Forse non è una gabbia, ma una trappola in cui la società lucana, portata per mano dalla politica e da interessi “superiori”, è finita magari senza accorgersene. E quando le tue scelte sono fortemente condizionate dalle necessità materiali primarie perdi gran parte della tua dignità e del tuo status di cittadino libero: e la democrazia va a farsi benedire.

La sintesi di tutto questo è racchiusa nella vicenda del pozzo petrolifero Pergola1. Gli ambientalisti esultano per la decisone del ministero dell’Ambiente che avrebbe costretto la multinazionale Eni a rinunciare al progetto estrattivo. Hanno tutte le ragioni per chiedere che si abbandonino definitivamente le fonti energetiche fossili e di investire in piani di economia circolare e sostenibile. Hanno ragione nel chiedere bonifiche e ripristino dei luoghi.

I sindacati, dal canto loro, sono preoccupati perché Pergola 1 è “un tassello importante del piano industriale di medio periodo di ENI per il rilancio delle attività e quindi per la tenuta dei livelli occupazionali in Basilicata.” E quindi chiedono soluzioni affinché il progetto estrattivo del pozzo venga riavviato in tempi brevi.

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L’Eni da parte sua, non si lascia sfuggire l’occasione: “Il progetto di mettere in esercizio il pozzo Pergola 1 di Marsico Nuovo è tutt’altro che archiviato. Lo è certamente quello che ha subìto il no del ministero dell’Ambiente e per il quale poi Eni ha rinunciato al procedimento di Valutazione di impatto ambientale. Ma l’ipotesi di aprire un nuovo canale di estrazione potrebbe tornare valida superando le criticità evidenziate dalla commissione tecnica ministeriale.” Tranquillizzati così i sindacati. Interessi “superiori” a garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali.

I sindacati hanno l’interesse a mantenere un minimo di potere sui lavoratori i quali glielo riconoscono quel potere a condizione che non restino disoccupati. L’Eni ha interesse ad estrarre e ad incrementare la produzione di gas e petrolio. Gli ambientalisti difendono l’ambiente e il patrimonio naturalistico dei luoghi e chiedono riconversioni produttive.

Intanto, Total nella zona franca di Tempa Rossa, alleata suo malgrado, con il potere politico locale continuerebbe a selezionare lavoratori garbatamente segnalati dagli esponenti politici interessati alle prossime elezioni ammnistrative a Corleto Perticara. E nel frattempo continua ad inquinare nei limiti di legge, quando ci riesce.

Ma ciò che conta, per molti, è l’oggi. Il futuro può aspettare. Gli interessi, seppure legittimi, sono appiccicati al presente, conficcati nel terreno paludoso delle necessità materiali: portare il pane a casa è la priorità dei lavoratori e quindi dei sindacati. Salvaguardare il territorio, la salute e il futuro sono le priorità degli ambientalisti. Tutelare i profitti degli azionisti è la priorità dell’Eni della Total.  Tuttavia, chi tutela l’occupazione è ancora convinto che ambiente e petrolio possano convivere. Certo è sufficiente che i petrolieri, ma non sempre accade, facciano in modo che l’inquinamento rientri nei limiti di legge: inquino sì, ma nella misura consentita. Bell’affare. Da decenni siamo vittime dell’inquinamento legale, senza che nel frattempo la cosiddetta “classe dirigente” abbia saputo o voluto fermare la deriva caotica di un’economia locale sempre più dipendente dall’industria esogena. Il tema di sempre rimane aperto su due questioni cruciali: la complicata riconversione dei sistemi industriali ad alto consumo di fonti fossili e l’impatto sociale sui livelli occupazionali.

Tuttavia, nel frattempo, si fa rovente il confitto in corso tra elettrico e non elettrico, tra nucleare e altre fonti energetiche. Anche questo, un dibattito tra divergenze senza via d’uscita. Ingabbiato nel recinto della cosiddetta transizione energetica e, nel migliore dei casi, della transizione ecologica. Intanto che aspettiamo le transizioni energetica ed ecologica, la Basilicata sembra destinata a soccombere all’inevitabile necessità di incrementare la produzione di energia fossile, “per il bene del Paese”. Nel processo di trasformazione verso la nuova prospettiva energetica è probabile che, nell’attesa, alcuni territori dovranno sacrificarsi. Tra questi vi è la Basilicata dove “le potenzialità produttive di petrolio, gas, sole e vento non sono ancora tutte sfruttate.” Se queste insistenze da parte di politici, governi, opinion leader, imprese locali e multinazionali, troveranno positivo riscontro nei prossimi anni tutte le chiacchiere intorno allo sviluppo di questa piccola regione se le porterà via una sola tempesta. Il rischio che la Basilicata resti al palo, o comunque in grave ritardo sui processi di transizione è altissimo. Senza una classe dirigente all’altezza delle sfide, l’unica transizione che coinvolgerà da protagonista questa regione sarà la transizione dalla marginalità all’esclusione, dalla servitù alla schiavitù, dalla povertà alla miseria.

Ma c’è dell’altro. In pochi riconoscono che non ci sarà alcuna transizione ecologica senza una transizione sociale ed economica (e naturalmente politica). Non ci sarà una vera transizione ecologica senza un rovesciamento delle logiche di dominio che ingabbiano il mondo. Senza il passaggio dal profitto alla condivisione, dalla competizione alla cooperazione, dagli interessi nazionali agli interessi del pianeta; senza il passaggio dagli attuali paradigmi del mercato e delle società di mercato all’umanizzazione dell’economia. Il dogma del lavoro, la divisione sociale delle ricchezze, le disuguaglianze, le povertà, i conflitti etnici, religiosi, economici, il ridimensionamento sostanziale delle democrazie, sono tragiche variabili che ostacoleranno qualunque transizione comunque la si chiami. Soprattutto se, nera o verde, la strada sarà sempre quella dell’accaparramento egoistico delle risorse. Senza, lo ripetiamo, il superamento dell’attuale modello capitalistico di sviluppo fondato sull’ideologia neo liberista, tutto sarà più difficile o impossibile. È questo il nodo.



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