Oltre il PIL: come misurare la ricchezza nell’era digitale e dell’IA

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Simon Smith Kuznets è stato un economista americano di origini russe. Vinse il premio Nobel nel 1971 per la sua innovativa analisi dei processi di sviluppo economico. Nel 1934, quando era professore alla Wharton School dell’Università di Pennsylvania, produsse per il governo americano un rapporto sui metodi di misurazione per  monitorare le condizioni economiche generali del Paese, introducendo per la prima volta il concetto di Prodotto Interno Lordo (PIL).

I limiti del pil come misura della ricchezza moderna

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il PIL divenne lo standard internazionale per misurare la crescita economica grazie alla sua adozione da parte di organizzazioni come le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Oggi, il PIL è calcolato secondo tre principali metodologie, nessuna delle quali prende in considerazioni transazioni di natura non monetaria:

  • il metodo della produzione (somma del valore aggiunto di tutti i settori produttivi);
  • il metodo della spesa (somma di consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette);
  • il metodo del reddito (somma di salari, profitti e rendite).

Lo stesso Kuznets, in un discorso al Congresso, sottolineò i limiti del PIL rispetto alla misura del benessere sociale e affermò la necessità di tener conto delle differenze tra la quantità e la qualità della crescita, dei suoi costi e dei suoi benefici, e di distinguere tra breve e lungo periodo.

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Il paradosso della produttività: quando l’innovazione non si vede nelle statistiche

In effetti il concetto di PIL nasce da una visione fordista dell’economia. Tra le principali critiche, oltre a quella fondamentale di tener conto solo delle transazioni in denaro, c’è il fatto di non distinguere tra la spesa in beni e servizi “nocivi” e quella in beni e servizi utili a migliorare la cultura, il benessere e la qualità della vita: il denaro speso in prodotti nocivi per il benessere (come, ad esempio, alcol e gioco d’azzardo) è valutato sullo stesso piano del denaro speso per la cultura o l’istruzione.

Questi limiti hanno assunto particolare evidenza quando è iniziata la “trasformazione digitale” dell’economia e della società. Nel 1987, l’economista premio Nobel Robert Solow formulò un’osservazione diventata celebre: “Si possono vedere computer ovunque, tranne che nelle statistiche sulla produttività.” Questa affermazione, nota come Paradosso della Produttività, sottolineava una contraddizione apparente: nonostante la crescente diffusione dell’informatica nelle imprese, i dati macroeconomici non mostravano un aumento significativo della produttività.

Oggi, questo stesso paradosso si manifesta in modo ancora più evidente con il progredire delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale: nonostante l’enorme diffusione di strumenti basati su AI, automazione e cloud computing, la crescita della produttività totale dei fattori (PTF) nei paesi avanzati rimane modesta.

Perché le grandi innovazioni richiedono tempo per generare crescita misurabile

Il paradosso di Solow è dovuto a due fattori concorrenti. Il primo riguarda il fatto che le grandi innovazioni tecnologiche impiegano tempo per tradursi in crescita economica visibile, mentre nel breve periodo possono verificarsi perfino effetti di disruption sulle attività esistenti. Ciò è vero in generale per le tecnologie digitali, e in particolare per l’AI, che richiedono una trasformazione dei modelli di business e una riprogettazione dei processi per poter dispiegare i loro effetti. Queste tecnologie sono “motori di crescita”. In particolare, sono pervasive, migliorano nel tempo e portano a innovazioni complementari.

Tuttavia, oltre a nuove tipologie di attrezzature fisiche e strutture, per realizzarne il pieno potenziale sono necessari ingenti investimenti intangibili e una riprogettazione fondamentale dell’organizzazione della produzione stessa. Le imprese devono creare nuovi processi aziendali, sviluppare competenze manageriali, formare i lavoratori, e costruire altri asset intangibili. Questo solleva problemi nella misurazione della produttività, poiché a questi investimenti intangibili non corrispondono immediatamente incrementi nella produzione di beni e servizi venduti sui mercati e contabilizzati nei bilanci o nei conti nazionali.

La presenza e la tempistica di questo tipo di investimenti spiegano perché il paradosso di Solow possa verificarsi. Quando emerge una nuova tecnologia di uso generale, c’è un periodo, che può essere considerevole, durante il quale capitale e lavoro vengono impiegati per accumulare stock di capitale intangibile non misurato rinunciando a quote di produzione misurabile, per costruire nuovi input non misurati che completano l’innovazione tecnologica di base.

Ad esempio, le tecnologie che hanno guidato la rivoluzione industriale britannica hanno portato alla “pausa di Engels“, un periodo di mezzo secolo, dal 1790 al 1840, caratterizzato da accumulazione di capitale, innovazione industriale e stagnazione salariale. Nel caso successivo dell’elettrificazione, ci volle una generazione affinché le fabbriche reinventassero organizzazione e processi interni per sfruttare appieno i benefici della nuova tecnologia. Solow evidenziò il suo paradosso circa due decenni dopo l’avvento dell’era informatica. Di fatto, quanto più trasformativa è la nuova tecnologia, tanto più probabile sarà che i suoi effetti sulla produttività vengano inizialmente sottostimati.

Il valore invisibile del digitale: l’esempio della fotografia e altri casi emblematici

Il secondo fattore che spiega il paradosso di Solow si riferisce alla natura spesso intangibile e non monetizzabile dei servizi generati da queste innovazioni, servizi che non vengono “venduti” nel senso tradizionale del termine, per cui le metriche economiche, come già osservato, non riescono a catturarne il valore. Infatti, automazione, chatbot, software intelligenti, nuovi servizi migliorano la qualità della vita e riducono i tempi di lavoro, ma non sempre generano transazioni monetarie misurabili dal PIL.

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Questo aspetto è stato ben illustrato nel 2015 da Hal Varian, Google Chief Economist e professore emerito di economia all’Università di California a Berkeley, in una famosa intervista al Wall Street Journal. In particolare, per spiegare come le statistiche tradizionali sulla produttività non riescano a catturare adeguatamente il valore prodotto dalle innovazioni tecnologiche, specialmente nel campo dei servizi digitali, ha citato l’esempio della fotografia.

Nel 2000 in tutto il mondo sono state scattate circa 50 miliardi di fotografie analogiche con una spesa di molti miliardi di dollari in pellicole, servizi di stampa e macchine fotografiche. Nel 2015, grazie alla fotografia digitale e agli smartphone, il numero di foto scattate è aumentato a 1660 miliardi ma la spesa è crollata vicino allo zero. Oggi possiamo scattare più foto, modificarle facilmente e condividerle istantaneamente in tutto il mondo con una drastica riduzione dei costi. Dal punto di vista del consumatore, questo rappresenta un enorme aumento di surplus. Tuttavia, dal punto di vista del PIL, il settore della fotografia si è ridotto drasticamente, e gran parte del valore creato non viene contabilizzato.

La democratizzazione dell’accesso alla conoscenza e creatività nell’era digitale

Questo non è un caso isolato, negli ultimi 30 anni molte industrie sono state trasformate con risultati simili. Solo per fare qualche esempio:

  • Dal vinile a Spotify: oggi possiamo ascoltare milioni di canzoni con un costo marginale quasi nullo rispetto al passato, ma il valore complessivo registrato nel PIL non è cresciuto proporzionalmente alla maggiore accessibilità e al maggior consumo di musica.
  • Wikipedia, che ha eliminato il bisogno di enciclopedie cartacee o CD-ROM (Microsoft Encarta chiude nel 2009, l’Enciclopedia Britannica ha cessato la produzione cartacea nel 2012).
  • I software open source (come Linux, Apache, Pyton, Tensor Flow, ecc.) sviluppati da comunità di programmatori senza scambio di denaro.
  • La navigazione digitale (Come Google Maps, Waze e Apple Maps) che ha un immenso valore per milioni di persone, ma nessun impatto sul PIL.

Chiunque con un accesso a internet può oggi trovare informazioni, esplorare il mondo e persino ottenere una formazione avanzata a costi nulli o quasi nulli. Se confrontiamo la situazione attuale con quella di qualche decennio fa, ci accorgiamo di quanto la tecnologia abbia abbattuto le barriere economiche. Una volta per viaggiare servivano costose mappe cartacee o guide turistiche; oggi Google Maps offre indicazioni precise in tempo reale, aggiornate e gratuite. Enciclopedie e dizionari, che un tempo erano appannaggio di chi poteva permettersi volumi costosi, sono ora disponibili per chiunque grazie a Wikipedia o agli assistenti vocali intelligenti.

Lo stesso sta accadendo per la creazione di contenuti. I modelli di intelligenza artificiale generativa permettono di scrivere testi, creare immagini, tradurre documenti e persino comporre musica con costi ridotti a una frazione rispetto ai metodi tradizionali. Questi strumenti non solo migliorano la produttività, ma democratizzano l’accesso alla creatività e all’innovazione, dando a milioni di persone la possibilità di produrre valore senza investimenti iniziali onerosi; con il loro sviluppo continueranno in futuro a ridurre i costi di produzione e distribuzione della conoscenza, dell’intrattenimento e persino della salute. L’accesso a diagnosi mediche basate su AI, la personalizzazione dell’educazione grazie ai tutor digitali, la possibilità di creare contenuti artistici con strumenti avanzati sono solo alcuni esempi di come la tecnologia renderà ancora più diffusa questa ricchezza intangibile.

Le implicazioni economiche e fiscali della ricchezza digitale

Le questioni sopra esposte non sono solo teoriche, ma hanno notevoli riflessi pratici per una corretta impostazione delle politiche industriali e, anche, dei regimi di tassazione delle grandi aziende che appartengono al cuore oligopolistico mondiale delle tecnologie digitali. Queste ultime, infatti, generano profitti astronomici, dominano i mercati globali e influenzano la vita di miliardi di persone ma, nonostante il loro impatto economico senza precedenti, la loro incidenza sul PIL è sorprendentemente bassa rispetto alla loro influenza effettiva.

Con una struttura di costi e forza lavoro molto ridotte rispetto al passato, le Big Tech pagano meno tasse rispetto alle aziende tradizionali, perché i loro asset sono soprattutto intangibili e facilmente spostabili tra diverse giurisdizioni fiscali (cfr. ad esempio il famoso schema “Double Irish with a Dutch Sandwich”, utilizzato da molte grandi corporations e in passato anche da Google).

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Alla ricerca di nuovi indicatori di benessere oltre il PIL

Il dibattito sulle questioni sopra esposte ha portato allo studio di numerosi indici di ricchezza o di crescita alternativi al PIL. Citiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune iniziative, come la conferenza internazionale “Beyond GDP” svoltasi nel  2007 a Bruxelles per discutere delle prospettive di nuove metriche più appropriate per misurare lo sviluppo. Una delle alternative è l’Indicatore del progresso reale (IPR) il cui obiettivo è la valutazione dell’aumento della qualità della vita. Un’altra proposta, interessante perché sono già stati fatti esperimenti di misura in numerosi paesi, riguarda l’indicatore di benessere soggettivo, vale a dire la percezione che gli individui hanno della propria vita e del grado di soddisfazione che provano per essa. Hal Varian, di Google, e  Erik Brynjolfsson, del MIT, hanno sviluppato il GDP-B (Gross Domestic Product + Benefits) per misurare il valore del surplus digitale attraverso sondaggi e analisi del tempo risparmiato.

Un altro approccio, utilizzato da McKinsey e altre società di consulenza per stimare il valore economico dell’intelligenza artificiale in diversi settori, consiste nell’analizzare l’uso di AI nelle aziende attraverso metriche indirette, come l’aumento dell’efficienza operativa, il miglioramento della personalizzazione per i clienti o il risparmio di tempo nelle attività cognitive ripetitive.

Tutti gli indicatori esaminati sopra hanno la comune caratteristica di riconoscere la limitata significatività del prodotto interno lordo e la sua inadeguatezza come dato espressivo del reale benessere di un Paese. Esiste anche un filone di pensiero più radicale che contesta l’uso di indicatori quantitativi per misurare variabili di natura qualitativa. Ad oggi, tuttavia, il PIL rappresenta ancora la metrica più utilizzata e diffusa per i suoi indubbi vantaggi di “oggettività” e facilità di misurazione a partire dalle statistiche di base (eccezion fatta naturalmente per la cosiddetta economia sommersa).

Siamo tutti più ricchi di quanto pensiamo

In conclusione, può darsi che non vedremo presto il riflesso dell’enorme sviluppo delle tecnologie digitali e dell’AI nei dati ufficiali sulla ricchezza e sulla crescita economica, e forse neanche nei nostri stipendi: misurando la nostra ricchezza solo in termini di reddito pro-capite o di PIL potremmo avere l’impressione che il progresso non ci abbia resi più ricchi di quanto eravamo venti o trent’anni fa. Tuttavia, se consideriamo la quantità di beni e servizi a cui oggi abbiamo accesso gratuitamente o a costi irrisori rispetto al passato, emerge una realtà diversa: il nostro benessere è aumentato molto più di quanto non venga rilevato dalle statistiche e possiamo affermare con certezza che siamo tutti un po’ più ricchi di quello che pensiamo.

Bibliografia

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Brynjolfsson, E., Eggers, F., & Gannamaneni, A. (2018) Using Massive Online Choice Experiments to Measure Changes in Well-Being. Proceedings of the National Academy of Sciences

Contabilità

Buste paga

 

Brynjolfsson, E., Rock, D., & Syverson, C. (2019) Artificial Intelligence and the Modern Productivity Paradox: A Clash of Expectations and Statistics. NBER Working Paper.

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Haskel, J., Westlake, S. (2017) Capitalism without Capital: The Rise of the Intangible Economy. Princeton University Press.

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McKinsey Global Institute (2023) The Future of Work in the Age of AI.

OECD (2023) Measuring the Digital Transformation.

Dilazioni debiti fiscali

Assistenza fiscale

 

Varian, H. (2015). Why GDP is not a good measure of the digital economy. Wall Street Journal.

World Economic Forum (2021) The Global Competitiveness Report.



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