A proposito di mobilità elettrica, un tema caldo per l’industria automobilistica, Massimo Nalli, presidente e Ceo di Suzuki Italia, ha una teoria precisa: “L’approccio all’elettrico non sta funzionando come una “rampa di avvicinamento”, ma piuttosto come uno “scalino”, spiega il manager.
Perché, cosa intende?
“Quando parlo di “scalino”, mi riferisco al fatto che la transizione verso l’elettrico non è graduale come ci saremmo aspettati. Non stiamo gestendo un percorso fluido, ma un salto improvviso. Questo scalino si è rivelato troppo alto sia per le case automobilistiche che per i clienti. Per noi produttori, la tecnologia c’è, ma non è ancora matura al punto da rendere i veicoli elettrici pienamente desiderabili per il grande pubblico. Per i clienti, invece, ci sono ostacoli evidenti: il prezzo elevato, l’autonomia, le infrastrutture di ricarica. Insomma, è un passo difficile da compiere, e forse troppo ambizioso così com’è ora”.
Quindi lei ritiene che questo “scalino” debba essere rivisto?
“Esatto. Ben venga una revisione. Non dico di abbandonare l’elettrico, ma di abbassare questo scalino, di renderlo più accessibile. Serve una rampa di accesso, un approccio più graduale che tenga conto delle realtà attuali, sia per i costruttori che per i consumatori”.
E quale potrebbe essere questa “rampa di accesso”? Ha in mente una soluzione concreta?
“La mia idea è semplice: manteniamo la trazione elettrica come parte della soluzione, ma non come l’unica strada. Dobbiamo affiancarla ad altre tecnologie che riducano comunque le emissioni di CO2 e i gas clima-alteranti, senza però rivoluzionare tutto da zero. Penso, ad esempio, ai combustibili sintetici, ai biocarburanti e, in alcuni segmenti di nicchia, all’idrogeno. Queste sono tecnologie che hanno già raggiunto un livello di sviluppo sufficiente per essere applicate su larga scala, soprattutto i biocarburanti e i carburanti sintetici. E il bello è che possiamo continuare a usare il motore a combustione interna, preservando così la filiera produttiva e i posti di lavoro”.
Quindi lei non vede l’elettrico come la panacea per la mobilità del futuro?
“Non proprio. L’elettrico è una soluzione valida per alcuni clienti, e di fatto stiamo vedendo sempre più persone che lo considerano un’alternativa interessante. Ma attenzione: non è l’unica via. Sempre più clienti si rendono conto che la mobilità elettrica ha dei limiti, soprattutto in termini di costo e praticità. La rampa di accesso sta proprio nel diversificare: offrire opzioni come i biocarburanti o i combustibili sintetici accanto all’elettrico, per rispondere alle esigenze di tutti. Non dobbiamo forzare una sola tecnologia, ma costruire un mix che funzioni”.
Un approccio pragmatico, quindi. Pensa che questa visione sia condivisa anche da altri nel settore?
“Credo di sì. Molti stanno iniziando a capire che puntare tutto sull’elettrico, almeno in questa fase, rischia di alienare una parte dei clienti e di mettere sotto pressione le filiere produttive. Serve equilibrio. Noi di Suzuki, ad esempio, stiamo già lavorando su soluzioni ibride e stiamo esplorando i biocarburanti. È una strada che riteniamo sostenibile, sia per l’ambiente che per il mercato”.
Alcuni sostengono che c’è un problema culturale nell’accettazione di questa tecnologia. Lei cosa ne pensa?
“Beh, sinceramente, io sono un po’ scettico – forse cinico, come direste voi – su questa idea di un problema culturale. Non credo che la resistenza all’elettrico sia una questione di mentalità o di tradizioni. Mi spiego: guardiamo il passato. Prendiamo il telefonino, per esempio. Nessuno ci ha imposto di adottarlo, non c’è stato bisogno di un grande cambiamento culturale per convincerci. È arrivato sul mercato, era comodo, economicamente accessibile, e ci ha semplificato la vita: sicurezza, comunicazione ovunque, in macchina, durante una passeggiata. Lo abbiamo abbracciato perché ci conveniva, non perché qualcuno ci ha detto di farlo”.
Quindi lei non vede una barriera culturale nella transizione all’elettrico?
“Non penso che sia una questione di cultura. Io sono pragmatico, forse troppo, ma credo che le persone cambierebbero volentieri se l’offerta fosse giusta. Se domani avessimo un’auto elettrica che costa come una vettura termica, o addirittura meno, e che offre prestazioni simili – autonomia, praticità, tutto il resto – non ci sarebbe bisogno di convincere nessuno. Cambieremmo subito, e lo faremmo con piacere. Il problema non è nella testa dei clienti, ma nell’offerta che il mercato propone”.
Sta dicendo che il vero ostacolo è più pratico che culturale?
“Proprio così. Si torna sempre alla tecnica e all’economia. Un oggetto come l’automobile, che ha una diffusione così capillare, non può essere rivoluzionato per decreto. Non funziona imporre una tecnologia dall’alto e sperare che il mercato la segua. L’evoluzione vera la fa un prodotto che è attraente, che convince da solo i consumatori. Non uno che diventa obbligatorio per legge o per pressione politica. È una differenza fondamentale”.
Il successo dell’elettrico dipende più dalla sua competitività che da un cambiamento imposto?
“Sì, assolutamente. Un prodotto deve stare in piedi da solo sul mercato. Se un’auto elettrica diventa conveniente – in termini di prezzo, prestazioni, infrastruttura – i clienti la sceglieranno senza bisogno di spinte esterne. Pensiamo di nuovo al telefonino: non è stato un governo a dirci di usarlo, è stato il prodotto stesso a conquistarci. Per l’elettrico serve la stessa cosa: non una rivoluzione forzata, ma un’evoluzione naturale guidata da un’offerta davvero interessante”.
Un punto di vista molto pragmatico, come dice lei. Pensa che le case automobilistiche stiano andando in questa direzione?
“Alcuni sì, altri meno. Da parte nostra, cerchiamo di ascoltare il mercato e di proporre soluzioni che abbiano senso oggi, non solo per il futuro. L’elettrico è una strada, ma non l’unica. Serve equilibrio tra innovazione e realtà pratica. Se riusciamo a rendere la tecnologia attraente – non obbligatoria – allora sì, il cambiamento arriverà da sé”.
A proposito del Green Deal e della transizione verso l’elettrico. Secondo lei, è possibile fare un passo indietro, almeno parziale, rispetto a questi obiettivi?
“Sì, io credo che sia possibile, e forse anche necessario, tornare parzialmente indietro. Non dico di abbandonare tutto, attenzione, ma di rivedere l’approccio. Noi case automobilistiche, lo ammetto, a volte sembriamo indecise. Prima ci lamentavamo dei costi dell’elettrico, dicevamo ‘eh, ma quanto costa?’, e ora che si parla di rallentare un po’ la corsa, sentiamo dire “eh, ma non possiamo tornare indietro!”. La verità è che siamo ancora in tempo per aggiustare la rotta, non per cancellare l’elettrico, ma per affiancargli altre soluzioni, come motori termici con combustibili alternativi – sintetici, bio, ad esempio”.
Quindi lei vede una via di mezzo, un mix di tecnologie, piuttosto che un focus esclusivo sull’elettrico?
“Non ha senso puntare tutto su una tecnologia full electric, almeno non ora. Siamo in tempo per diversificare, per mantenere una certa flessibilità. Possiamo integrare l’elettrico con soluzioni termiche più sostenibili, e questo ci permetterebbe di rispondere meglio alle esigenze del mercato senza stravolgere tutto. È una questione di pragmatismo: non si tratta di tornare indietro del tutto, ma di trovare un equilibrio”.
Lei ha accennato al fatto che il mercato automobilistico sta cambiando. Come influisce questo sulla possibilità di “tornare indietro” o di adattarsi?
“Guardi, una cosa è certa: noi case automobilistiche non possiamo più contare su volumi di produzione come in passato – quei 90 milioni di auto all’anno non saranno sostenibili a lungo. Le auto servono sempre meno: lavoriamo da casa, ci spostiamo meno, e la motorizzazione ha già raggiunto livelli altissimi. Pensi all’Italia: è il paese più motorizzato d’Europa, tra i primi al mondo per vetture per abitante. Questo significa che la domanda di massa, quella su cui abbiamo vissuto per decenni, sta lasciando spazio a una domanda più individuale, personalizzata. Le case devono adattarsi a questo, indipendentemente dalla tecnologia”.
E questo cambiamento come si collega alla scelta tra elettrico e altre soluzioni?
“Il punto è che la pressione sui margini e sui risultati ci sarà comunque, che si parli di elettrico o di altro. Non è la tecnologia in sé a dettare il futuro, ma la capacità di rispondere al singolo cliente. Se prima producevamo per le masse, ora dobbiamo lavorare su misura. Tornare parzialmente indietro o, meglio, diversificare con tecnologie termiche sostenibili accanto all’elettrico, è una scelta che una casa flessibile può fare. Non è un problema di tecnologia imposta, ma di strategia: dobbiamo essere capaci di offrire quello che il mercato vuole, non solo quello che ci viene chiesto di fare dall’alto”.
Quindi, in definitiva, vede questa flessibilità come una chiave per il futuro di Suzuki e dell’industria in generale?
“Sì, assolutamente. Una casa automobilistica che sa adattarsi – che non si intestardisce su una sola strada, ma sa mixare soluzioni – è quella che sopravviverà. La pressione economica ci sarà sempre, ma se siamo bravi a leggere i bisogni dei clienti e a proporre prodotti sensati, che siano elettrici, termici o ibridi, allora possiamo farcela. È una questione di realismo e di apertura al cambiamento, non di capricci”.
C’è un altro tema che sta influenzando il settore automobilistico: i dazi sulle auto, sia quelli imposti dall’Unione Europea che quelli annunciati da Trump. Che ruolo giocano, secondo lei, in questo contesto?
“I dazi? Sono un elemento di disturbo, punto. Disturbano tutti: chi produce, chi vende, chi compra. Io sono un appassionato di corse automobilistiche, quindi mi viene naturale fare un parallelo. È come in certi campionati dove al vincitore mettono dei pesi extra per penalizzarlo. Ma non funziona, perché il pubblico vuole vedere competizione, vuole che vinca il più forte, non chi è favorito da un handicap artificiale. Anche nel mercato è così: se lo modifichi con i dazi, crei un equilibrio instabile, artificioso. E il problema è che basta sbagliare di poco – un dazio troppo alto o troppo basso – e il sistema va in tilt”.
Quindi lei non vede i dazi come una soluzione virtuosa per il mercato?
“No, per niente. Un mercato artificiosamente alterato non sarà mai virtuoso. Vive di un’instabilità estrema, e noi lo sappiamo bene: il mercato comanda, fino a prova contraria. I dazi possono sembrare un modo per proteggere qualcuno o penalizzare qualcun altro, ma alla fine complicano tutto. Il pubblico – i clienti – vuole vedere vincere chi è più competitivo, chi offre il prodotto migliore, non chi è avvantaggiato o svantaggiato da regole esterne”.
Lei ha accennato all’esperienza delle case giapponesi in passato. Può farci un esempio concreto di come queste dinamiche abbiano influito?
“Pensiamo agli anni ‘80 e ai primi anni ‘90. In Europa c’era il contingentamento: le auto giapponesi non potevano entrare liberamente, servivano licenze di importazione, e la nostra quota di mercato era limitata per legge. Era più di un semplice dazio, era una barriera vera e propria. Eppure, le poche vetture che arrivavano sono state apprezzate per affidabilità, completezza di equipaggiamento, qualità. Ci abbiamo messo trent’anni a costruirci una reputazione solida e a entrare stabilmente nel mercato europeo. I coreani? Una ventina d’anni. I cinesi, probabilmente, ci metteranno ancora meno”.
Nonostante le barriere la qualità alla fine vince.
“Esatto. Il mercato trova sempre una strada. Quei contingentamenti non ci hanno fermato, ci hanno rallentato, ma alla fine i clienti hanno scelto noi perché il prodotto era valido. I dazi di oggi sono un fastidio simile: non bloccano il mercato, lo disturbano. Ma se hai un’auto competitiva – che sia elettrica, termica o altro – alla fine il cliente la sceglie, dazi o non dazi. È una questione di tempo e di offerta. I giapponesi lo hanno dimostrato, i coreani pure, e presto lo faranno i cinesi”.
E per Suzuki, come vede l’impatto di questi dazi nel breve termine?
“Nel breve termine sono un problema pratico: aumentano i costi, complicano la logistica, ci costringono a rivedere strategie. Ma non cambiano la sostanza. Noi continuiamo a puntare su ciò che sappiamo fare bene: auto affidabili, accessibili, che rispondano ai bisogni reali dei clienti. I dazi possono rallentare il gioco, ma non decidono chi vince. Quello lo decide il mercato, come sempre”.
Va bene, ma nonostante tutto, è possibile essere ottimisti sul futuro dell’auto in questo scenario?
“Devo ammetterlo, fino a poco tempo fa ero piuttosto pessimista. Ma, pensandoci bene, credo che ci sia spazio per l’ottimismo. L’automobile, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, genera ancora tantissima passione. E non parlo solo di noi delle generazioni più avanti, che magari abbiamo già vissuto e bruciato tutti i sogni possibili. Parlo soprattutto dei giovani”.
Ma i giovani siano ancora attratti dalle auto?
“Assolutamente sì. Chi dice che i giovani non sono appassionati di auto dovrebbe farsi un giro a una giornata di ACI Rally Italia Talent, quelli organizzati in pista per scoprire i futuri campioni di rally. Lì si vede la verità: i ragazzi sognano ancora, e l’auto è parte di quel sogno. Siamo noi, forse, che a volte abbiamo smesso di alimentare quella passione. Ma se lasciamo loro la libertà di sognare, si appassionano eccome”.
E come si può mantenere viva questa passione?
“Dobbiamo farli emozionare. Magari fargli sentire ancora il rombo di un motore a combustione interna, meglio se con un bel numero di cilindri: qualcosa di fantastico, che ti prende e non ti lascia. Certo, il futuro è fatto anche di elettrico e tecnologie nuove, ma quel suono, quella vibrazione, è un pezzo di storia che parla al cuore. Se gli diamo questo, insieme a innovazione e libertà di scelta, la passione non morirà mai”.
Vede un equilibrio tra passato e futuro come chiave per il settore?
“Si perché l’auto non è solo un mezzo per spostarsi, è emozione, è sogno. Noi di Suzuki lo sappiamo: non possiamo abbandonare ciò che ha fatto grande questo mondo, ma dobbiamo anche guardare avanti. Se riusciamo a ispirare i giovani – con il rumore di un motore o con un’auto elettrica che li stupisca – allora sì, possiamo essere ottimisti. Il futuro dell’auto dipende da loro, e io credo che siano pronti a raccoglierlo”.
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