Ricevendo alla Casa Bianca il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente Donald Trump ne ha sparata un’altra delle sue: rimuovere più di due milioni di palestinesi da Gaza e parcheggiarli in Egitto e Giordania, per far spazio a un ambizioso progetto di ricostruzione che trasformerebbe la Striscia in una riviera di lusso – un po’ Dubai un po’ Portofino. L’America farà più in fretta a rimuovere le macerie e ricostruire tutto se la popolazione non rimane, ha suggerito Trump, che di ruspe, cantieri, palazzi e porticcioli di lusso se ne intende. Quando la ricostruzione sarà finita, tutti vorranno vivere a Gaza, e forse ci potranno anche tornare i palestinesi. Forse sì e forse no. Se c’è una cosa a cui Trump ci ha abituato è il suo linguaggio sopra le righe associato però a una forte determinazione. Ricordate il muro al confine con il Messico, che il Messico avrebbe dovuto finanziare? Trump lo promise durante la campagna elettorale del 2016.
False minacce, vere conseguenze
Nove anni dopo, il muro, iniziato durante la prima presidenza del tycoon, verrà probabilmente completato durante il suo secondo mandato anche se il Messico non ha mai pagato un dollaro. Quell’uscita del presidente ha però cambiato la realtà del dibattito sull’immigrazione in America, spingendo il paese a riconoscere la minaccia alla sicurezza nazionale rappresentata da un confine molto poroso sostanzialmente aperto e ad accettare la necessità di un regime migratorio più controllato. Ricordate anche Qassem Soleimani, l’intoccabile leader delle forze Quds dei Pasdaran iraniani, che nessuno si sognava di minacciare per paura di feroci ritorsioni di Teheran? Trump ne ordinò l’eliminazione, contro il parere di tanti esperti navigati, facendolo vaporizzare da un drone a Baghdad, insieme, per buona misura, al leader delle milizie sciite pro-iraniane in Iraq, Abu Mahdi al-Muhandis. Le feroci ritorsioni temute non ci furono e l’apparato della resistenza iraniana nella regione subì un duro colpo. Ricapitolando, Trump le spara grosse, e ogni tanto apre il fuoco per davvero.
Su Gaza, Trump ha però sollevato dei problemi reali, costringendo la comunità internazionale a riconoscere che i termini del conflitto e del dibattito su come risolverlo vanno radicalmente rivisti. Trump ha messo anche alle strette i paesi arabi, tra cui Egitto e Giordania, beneficiari da decenni di generosi aiuti finanziari e militari americani. Tocca anche a loro sbrogliare questo pasticcio. Come per incanto, tutti stanno correndo rapidamente ai ripari, con gli egiziani in prima fila a convocare un summit straordinario per fare una controproposta che porti alla ricostruzione di Gaza e affronti una volta per tutte il problema di Hamas. Dettagli (e provocazioni) a parte, il succo della proposta di Trump è in fondo questo: così non si va avanti.
Cambiare rotta al Medio Oriente
Se Gaza deve esser ricostruita per esser distrutta di nuovo nel prossimo round di conflitto perché ricostruirla? Occorre un cambio di rotta. Se la soluzione dei due stati per due popoli non ha funzionato per cent’anni, perché permettere che Hamas, che quella idea la contrasta con violenza genocida, rimanga al potere? Se le stime dei tempi e dei costi della ricostruzione sono plausibili – tra i 50 e gli 80 miliardi di dollari e 15-20 anni per completare il lavoro – perché lasciare due milioni di persone a marcire tra miseria e rischi di epidemia in mezzo a un paesaggio urbano devastato, dove le rovine nascondono tonnellate di esplosivi inesplosi, e dove a causa delle centinaia di chilometri di tunnel costruiti da Hamas sotto le città tutto potrebbe crollare? Se occorre promuovere moderazione e debellare il radicalismo islamico alimentato dal regime di Hamas, i petrodollari del Qatar e la connivenza delle organizzazioni internazionali, come farlo lasciando due milioni di persone a vivere per vent’anni in quelle condizioni e con quegli sponsor? Se spostare due milioni di palestinesi da una Gaza devastata per far spazio alle ruspe e ai progetti palazzinari di Trump è una follia logistica, perché ha senso pensare sia realistico, per giungere a una pace duratura, spostare a forza seicentomila israeliani dalla Cisgiordania? Trump, insomma, l’ha sparata grossa per provocare uno shock sistemico e costringere prima di tutto gli alleati arabi ed europei a guardare finalmente in faccia la realtà. Il presidente americano è stato vago nei dettagli, ha detto tutto e il suo contrario e ha assunto un atteggiamento possibilista di fronte all’iniziativa egiziana. Sfrondando tutto dalla boria del bullo rimangono alcuni punti fermi condivisibili. Primo, Gaza è un cumulo di macerie invivibile. Chi ha a cuore i suoi residenti e le loro possibilità di ricostruirsi una vita non dovrebbe condannarli a vivere lì tra rovine pericolanti per i prossimi vent’anni.
Hamas, un vicolo cieco per Gaza
Occorre facilitarne l’uscita. Secondo, Hamas è un ostacolo a ogni speranza di pace e convivenza: va rimosso. Terzo, i paesi arabi e gli europei devono cambiare rotta e contribuire non solo con soldi ma anche con idee nuove a una svolta. Quarto, solo una visione positiva di sviluppo economico e radicale cambio politico potrà trasformare Gaza da quello che è a quello che potrebbe essere. In fondo, Gaza, anche se densamente popolata, lo è meno di Singapore. Ha grandi risorse e potenzialità – le spiagge e il clima per il turismo, l’agricoltura, una popolazione giovane che, se opportunamente istruita, può creare una florida economia. È in una posizione strategica per i commerci internazionali come punto di transito tra Asia e Mediterraneo e lo sviluppo di infrastrutture adeguate può creare lavoro e benessere. Tutte considerazioni, va aggiunto, che stavano dietro alla visione di Oslo di trent’anni fa.
La principale causa del fallimento di questo potenziale va attribuita a Hamas e al suo regime di terrore, che ha messo Gaza in un vicolo cieco. Alla fine, conteranno meno i dettagli se ci sarà la volontà politica della comunità internazionale di inventarsi soluzioni nuove per la Striscia. Trump ha gettato un pietrone dentro uno stagno torbido, creando un’enorme onda. Chi non vuole bagnarsi d’acqua putrida farà bene a ragionare su quanto di vero c’è nell’ennesima provocazione del presidente e inventarsi nuove soluzioni.
Emanuele Ottolenghi
(© ImageBank4u)
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