“L’Europa doveva armarsi subito dopo l’invasione dell’Ucraina. Trump? Dopo l’attentato ha un visione messianica”

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Il Presidente della Fondazione Med’Or, Marco Minniti, già Ministro dell’interno e più volte parlamentare, guarda con urgenza alla necessità che l’Europa si doti di una capacità autonoma di difesa.

Von der Leyen lancia il piano per la difesa europea, 800 miliardi in quattro anni. Un primo passo importante.
«La consapevolezza di fare un passo avanti decisivo nel campo della sicurezza europea è una scelta tardiva, ma profondamente giusta. Non può esserci un’Europa che svolga un ruolo politico e diplomatico in questo mondo così profondamente disordinato che oggi potremmo definire apolare, senza avere una autonoma capacità di difesa. Da questo punto di vista il passo compiuto è importante, e proprio oggi ci sarà la riunione dei vertici europei. Aggiungo: serve una autonoma capacità di difesa e di proiezione».

L’America di Trump è cambiata repentinamente, rendendo indifferibile l’esigenza della difesa comune europea?
«Trump, a ben vedere, non sta facendo altro che tentare di realizzare quello che ha promesso nella campagna elettorale, il cui slogan era “America First”. E lo sta facendo con una determinazione senza precedenti, perché su di lui pesano due cose: l’esperienza del 2016-2020 in cui ritiene di aver peccato di troppa disponibilità e l’attentato da cui è uscito vivo per miracolo, che dà al suo impegno per la pace una sorta di valenza messianica: io sono vivo perché Dio vuole la pace attraverso la mia persona».

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La determinazione di Trump può portarlo su un crinale scivoloso, una visione distorta?
«C’è questo rischio. Gli Stati Uniti, Trump e Vance devono essere molto attenti. Una cosa è pensare di costruire insieme con la Russia e con l’Ucraina una soluzione per il conflitto, un’altra cosa è pensare di consegnare le chiavi della cessazione delle ostilità nelle sole mani di Putin. Sarebbe un errore drammatico».

Segnerebbe un’epoca?
«In ogni caso quell’epoca sta finendo. Anzi, per essere più precisi, quell’epoca è finita. E tuttavia un accordo Trump-Putin consegnerebbe il mondo ad una permanente instabilità, esattamente il contrario di quello che gli Stati Uniti pensavano di poter realizzare».

Il caos permanente, il contrario del nuovo ordine.
«Questo è il caso di scuola in cui può scattare l’esempio tipico dell’eterogenesi dei fini. Ricorda Wilhelm Wundt, il filosofo tedesco che la teorizzò per primo? In questo momento forse è utile richiamare a tutti i protagonisti quel principio: si può partire dalle migliori intenzioni e finire malissimo».

Dunque, una scelta obbligata?
«L’idea di un’autonoma capacità di difesa europea non solo è una scelta giusta, ma è una scelta che affonda le sue radici negli anni passati, e se dobbiamo ragionare con il rigore necessario dovremmo dire che si sono persi almeno tre anni cruciali, perché la risposta sulla difesa comune europea doveva venire non dico un minuto prima, ma un minuto dopo l’attacco di Putin all’Ucraina. Anche lì ci furono affermazioni solenni sul fatto che l’Europa aveva capito la lezione: sono passati tre anni e siamo alle prese con gli stessi nodi».

In questo modello però l’Europa deve fare ancora i conti con la realtà: omologare i sistemi, ripensare una cultura della difesa. Stanziare i fondi non basta.
«Stanziare i fondi è un primo passo, è la presa d’atto di una straordinaria esigenza politica. Aggiungo anche che in questo ambito noi dovremmo pensare ad un’Europa che lavori sempre di più per avere una politica estera e una politica di difesa comune: due facce della stessa medaglia, come appare sempre più evidente».

Quella cifra, 800 miliardi, non è piccola.
«Lo stanziamento di un impegno consistente è un imperativo categorico, perché l’Europa ha di fronte, un approccio degli Stati Uniti che si conferma sempre più un approccio duramente unilaterale. Non isolazionista: neanche gli Stati Uniti, in questo mondo profondamente interconnesso, possono permettersi la scelta dell’autoisolamento».

Davanti a questo approccio unilaterale quali strade ha l’Europa?
«Ne indico due. Reagire con una configurazione unitaria, posto che nel piano Von der Leyen c’è questa idea. Sapendo che tuttavia la sfida che ha di fronte l’Europa non potrà essere affrontata soltanto con una risposta che mantenga inalterata l’attuale configurazione interna dell’Unione. Per essere ancora più chiaro, penso per esempio che la sfida vera che ha l’Ue non può vincerla se si muove soltanto dentro l’Europa a 27. Bisogna fare di tutto per salvaguardare la sua ampiezza, bisogna avere una cooperazione rafforzata di alcuni paesi che si cimentino veramente e contemporaneamente sull’esigenza di avere una politica estera e di difesa comune».

Una cabina di regia europea? Quali paesi ne farebbero parte?
«Non si può prescindere dai paesi cardine dell’Unione Europea, per intenderci Italia, Francia, Germania, a cui aggiungere due paesi importanti entrambi: a Est la Polonia – che sta spendendo più di tutti per la difesa – e la Spagna a Ovest. Poi più si allarga questa cooperazione rafforzata meglio è per l’Europa, e penso innanzitutto ai paesi baltici e del nord Europa, quelli per intenderci che conoscono direttamente la minaccia russa».

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Poi, se questa cabina di regia ci guiderà verso un sistema di Difesa comune, dobbiamo considerare il ruolo centrale del Regno Unito.
«Nel progetto di una difesa comune europea dobbiamo guardare a Uk come interlocutore privilegiato. Paese Nato, potenza nucleare, asse naturale e ancora più oggi del dialogo tra Europa e Stati Uniti, Uk pur essendo uscito dall’Ue non è mai venuto meno agli impegni in termini di Difesa e sicurezza comuni con l’Europa».

E si parla di estendere il piano per la Difesa europea alla Turchia.
«In questo ambito è evidente che noi dobbiamo pensare per esempio ad un ruolo molto importante della Turchia, paese Nato, perché la Turchia in questi anni ha fatto della sua collocazione geopolitica il suo punto di forza. Con un’inflazione al 90% come l’ha avuta la Turchia, mediamente un paese fallisce. Sa perché non è fallita la Turchia? Perché il mondo non poteva permettersi che fallisse. È una pietra angolare della diplomazia: solo per fare un esempio, la Turchia ha sostenuto fin dal primo momento l’Ucraina, al punto tale che l’ha dotata dei droni che le hanno consentito all’inizio del conflitto di potersi difendere, e contribuendo in maniera determinante agli accordi per il grano. Ma non ha mai applicato le sanzioni nei confronti della Russia. Applicando così, nei confronti di Mosca, il principio della “discordia concors”. Al punto tale, che quando hanno fatto lo scambio, Stati Uniti e Russia hanno trovato l’accordo per lo scambio di detenuti – tra i quali un giornalista del Wall Street Journal – a mediare è stata la Turchia».

L’Europa – con Uk e Turchia – potrebbe essere anche la spina dorsale del contingente in Ucraina?
«Oggi se pensiamo ad un progetto di prospettiva, a un contingente militare che garantisca la sicurezza dell’Ucraina, non possiamo pensare che sia esclusivamente europeo. Dobbiamo avere due elementi, uno più importante dell’altro: primo, questo contingente non può che essere sotto l’egida delle Nazioni Unite. So perfettamente che l’Onu sta attraversando una fase di eclissi politica, ma anche con questo logoramento, non possiamo pensare ad una presenza militare di mantenimento di una tregua e poi della costruzione di una pace, senza l’ombrello delle Nazioni Unite. Secondo, il fatto che ci sia un contingente, espressione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza, di cui fa parte anche la Cina, trasmette un messaggio evidente: quel clima di paralisi e di contrapposizione che ha finito per fiaccare l’Onu è finalmente concluso. Quella Cina che sta guardando con prudenza e distacco le mosse di Trump. Seguendo il principio fondamentale che l’ha guidata negli ultimi decenni: nascondi le tue capacità. Aspetta il tuo momento. Consapevole che l’amicizia senza limiti con la Russia non è facilmente reversibile. Anzi».

E noi europei, che strade abbiamo?
«Abbiamo due strade: o si va avanti verso quello che noi chiamiamo gli Stati Uniti d’Europa, che non avremo domani, ma è comunque una direzione che si può intanto intraprendere, oppure prevarrà l’Europa minima necessaria. E significherà che ogni singolo paese dovrà misurarsi nel rapporto con gli Stati Uniti one to one e in quella configurazione i paesi europei, nessuno escluso, saranno più deboli. Anche quelli che si illuderanno di aver costruito con Trump un rapporto privilegiato».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

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