La nostra città sta per essere investita da un’onda d’urto di immani proporzioni. Per qualcuno sarà pure un’onda “verde” ma di certo sconvolgerà completamente il paesaggio agricolo carpigiano. Al posto di grano, mais e foraggio infatti a svettare saranno “foreste” di pali e pannelli fotovoltaici. Il profilo delle nostre campagne è destinato a mutare radicalmente, soprattutto a nord: tra Fossoli e Novi di Modena, infatti, si rincorreranno impianti agrivoltaici (sistemi che sulla carta dovrebbero prevedere l’integrazione fra la produzione di energia tramite pannelli fotovoltaici e la produzione agricola o l’allevamento zootecnico) per una superficie occupata complessiva di circa 300 ettari: oltre 3 milioni di metri quadrati. Uno sconvolgimento non esente da rischi dal punto di vista dell’impatto ambientale, pericoli che abbiamo approfondito insieme al professor Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano nonché autore de Dalla Parte del Suolo – L’ecosistema invisibile, un libro necessario per riscoprire la meraviglia che abbiamo sotto ai nostri piedi, ovvero la pelle stessa del nostro pianeta. Una manciata di centimetri brulicanti di vita senza i quali non potremmo esistere.
Professor Pileri, partiamo da una distinzione che mi pare rilevante: rinnovabile non fa necessariamente rima con sostenibile.
“Certamente, ciò che viene considerato rinnovabile non è per forza sostenibile, indolore ed equo. Io non sono contrario alla transizione energetica verso le rinnovabili, semmai lo sono alla deregolazione con cui fino a oggi è stata gestita la partita della localizzazione di impianti solari e pale eoliche. Non ha senso fare energia rinnovabile con una mano e ridurre la biodiversità, consumando suolo, con l’altra”.
Ci si nasconde dietro al fatto che gli impianti agrivoltaici consentano di coltivare i terreni posti al di sotto dei pannelli ma è davvero possibile tale coabitazione?
“Tra i dettami suggeriti dal fu Ministero della Transizione ecologica (Mite) si legge che i pannelli più alti previsti si trovano a 2,1 metri dal suolo, ipotizzando che quell’altezza sia sufficiente a garantire l’uso dei macchinari per la gestione delle colture ma questo è vero solo in parte dal momento che, ad esempio, una mietitrebbia è alta quasi il doppio. Per mitigare l’impatto sulla produzione agricola, i criteri prevedono di distanziare le fila dei pannelli per coltivarci in mezzo: anche in questo caso la produzione si ridurrebbe poiché parte della superficie sarebbe comunque occupata dalle infrastrutture. E non si considera che le manovre dei trattori potrebbero danneggiarle, causando costi non indifferenti”.
Vi sono ricerche e studi tesi a stabilire l’entità dell’impatto di tali impianti sul suolo?
“Da uno studio condotto a Montalto di Castro, nel viterbese, si evince come sotto ai pannelli la componente organica collassi, si assiste cioè a una forte riduzione dello stoccaggio di carbonio con conseguente diminuzione della biodiversità. Ricordiamo inoltre che i parchi fotovoltaici sono tutti recintati e questo crea una barriera ecologica che impatta sulla biodiversità. Tra le indicazioni tecniche relative alla realizzazione degli impianti non si fa poi alcun riferimento all’eventuale impiego di pesticidi, non viene stabilito alcun protocollo per garantire un’agricoltura sostenibile. In altre parole, siamo tecnologici, produciamo energia pulita ma della tutela del suolo sottostante non ci curiamo, al contrario. E dire che prima di entrare in campo come minimo sarebbe necessario pulirsi i piedi…”.
La transizione energetica può avvenire senza consumare ulteriore suolo?
“Abbiamo ettari ed ettari di superfici piane cementificate che possono essere coperte di pannelli come i lastrici solari di edifici civili, pubblici e soprattutto industriali, agricoli, zootecnici, commerciali e logistici: Ispra stima una potenzialità di superfici impermeabili non vincolate e disponibile tra i 70 e i 90mila ettari a cui si potrebbero aggiungere parcheggi, piazzali (altri 65mila ettari), infrastrutture (oltre mezzo milione di ettari), siti contaminati. E molte di queste aree appartengono al Demanio o ad altri enti pubblici, garantendo così che la produzione energetica non finisca esclusivamente nelle mani dei privati. Fino a quando avremo tutte queste disponibilità non vedo il motivo per dare il via libera all’installazione su terreni agricoli e naturali anche se abbandonati”.
Professore perchè è così importante tutelare il suolo?
“In uno strato sottilissimo di terra c’è la più alta densità vitale del pianeta. Custode di un terzo della biodiversità terrestre in appena trenta centimetri di spessore, il suolo consente a tutto ciò che sta sopra di sopravvivere regolando al contempo equilibri fragili e fondamentali, da quello climatico a quello termico. La biodiversità è la più grande protezione dalla fine del mondo che esista: se non lo riconosciamo significa che non abbiamo capito nulla. Considerare il suolo una mera superficie, un oggetto da consumare, cementificare o sfruttare per installare dei pannelli, è sconsiderato. Drammatico. Il suolo è un soggetto ed è sotto attacco ma senza di esso non c’è vita. Non c’è nulla. Non ci siamo noi. Non possiamo permetterci di perderne altro”.
E allora che fare di fronte allo scempio ambientale che investirà il nostro Paese?
“La gente deve comprendere la portata di tale fenomeno e la sua gravità. Già nel 2022 col Governo Draghi, quando è cominciata la semplificazione legata alle autorizzazioni degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, noi esperti abbiamo iniziato a scrivere articoli e ad alzare la voce ma il tema non appassionava né la cittadinanza né gli ambientalisti. E intanto le vacche scappavano dalla stalla… Ora invece numerosi cittadini e agricoltori (che lo Stato peraltro dovrebbe sostenere per far fronte alle difficoltà che stanno vivendo, togliendogli di fatto dal collo le mani dei grandi gruppi che vogliono comprare i loro terreni) intravedono la possibilità concreta di veder sorgere pale eoliche o campi fotovoltaici sui loro territori e iniziano a mobilitarsi ma temo sia tardi. Serve un’attenzione preventiva. Dobbiamo allenarci a porre domande, come invitava a fare il filosofo Salvatore Veca. Studiare, leggere, imparare a tradurre le cose difficili in concetti semplici”.
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Jessica Bianchi
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