L’hanno vista arrivare, ma c’è voluta la conferma dalla viva voce di Donald Trump per convincere i mercati che la scure dei dazi a stelle e strisce era pronta ad abbattersi sul commercio mondiale e, a breve, anche sulla crescita economica dell’intero pianeta.
Lunedì pomeriggio, la tarda serata in Italia, le parole del presidente Usa hanno dato un taglio alle residue speranze di un atterraggio morbido e le Borse hanno reagito di conseguenza. Wall Street ha sterzato bruscamente al ribasso. Male il Dow Jones, giù di un paio di punti percentuali da lunedì, di poco meglio il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici.
L’Europa ieri si è mossa nella stessa direzione e sono andati peggio i listini dei paesi che in prospettiva hanno più da perdere dal protezionismo trumpiano. In prima fila l’Italia, quindi, con Piazza Affari sprofondata quasi del 4 per cento, per poi risalire un poco fino a meno 3,41 per cento. È andata ancora peggio alla Borsa di Francoforte, in ribasso del 3,5 per cento sui timori per l’export tedesco.
Cambio di stagione
Il bollettino di giornata suona come un implicito invito alla cautela per quanti, tra gli analisti, ancora pochi giorni fa predicavano un futuro brillante per i mercati globali, trainati da una crescita Usa ancora robusta e dalle aspettative di prossimi tagli del costo del denaro in Europa. In effetti, salvo sorprese clamorose, domani la Bce ridurrà i tassi d’interesse per la sesta volta da giugno 2024, ma il problema è che questo non basterà a risollevare gli umori degli investitori e ad alimentare il rilancio dell’economia reale. Non per niente, ieri il presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha chiesto un “atto di coraggio alla Bce” per arrivare a una sforbiciata dello 0,5 per cento contro lo 0,25 previsto dai più.
Anche negli Stati Uniti, viste le nubi nere in arrivo, sono destinati ad aumentare le pressioni sulla Fed perché intervenga rapidamente sul costo del denaro. Non è detto che il salvagente dei banchieri centrali arrivi, e soprattutto che arrivi in fretta.
Nubi americane
Intanto, quantomeno sul fronte delle Borse, nella migliore delle ipotesi la volatilità resterà elevata e l’attenzione sarà tutta rivolta verso l’altra sponda dell’Atlantico, dove la politica trumpiana rischia di metter fine a quello che è stato definito l’eccezionalismo americano (Us exceptionalism). Ovvero, in parole povere, gli Stati Uniti come unica grande economia in grado di crescere senza soluzioni di continuità, sostenuta dai consumi delle famiglie, da un mercato del lavoro resiliente e dagli investimenti delle imprese favorite da un ridotto prelievo fiscale. Tutto questo accompagnato da un’inflazione sotto controllo.
A quanto sembra, però, adesso anche i più ottimisti tra i commentatori, vedono comparire le prime crepe nella narrazione dei rialzi a oltranza. L’indice della produzione industriale statunitense ha fatto segnare una crescita quasi nulla in febbraio, mentre già abbondano i segnali di aumento dei prezzi dei semilavorati destinate alle fabbriche.
Anche i consumatori statunitensi, preoccupati per le numerose incognite del futuro prossimo, si fanno più prudenti e questo ovviamente indebolisce le imprese, che in prospettiva vedono calare ricavi e profitti.
Reazione canadese
A mutare in peggio lo scenario è bastata l’incertezza innescata dalla raffica di bellicosi annunci di Trump sulla nuova politica commerciale di Washington. E la situazione è destinata a peggiorare ancora adesso che il presidente è passato dalle parole ai fatti confermando i dazi sulle merci provenienti da Messico e Canada (25 per cento) e sui prodotti made in China (10 per cento che si aggiunge a un 10 per cento già deciso).
Dal Canada è già arrivata una prima reazione con tariffe supplementari sui prodotti americani che entro tre settimane colpiranno merci per una valore di 155 miliardi di dollari. Una misura accompagnata dalle parole del primo ministro di Ottawa, Justin Trudeau, che ha definito i dazi Usa una «cosa molto stupida». Pronta la replica di Trump, che ha promesso un’ulteriore aumento del prelievo doganale per i prodotti canadesi.
Sta di fatto che una parte rilevante del sistema industriale statunitense dipende per le sue forniture proprio dal Canada e dal Messico e la crescita dei prezzi all’import determinata dalle tariffe appena decise finirà per far sentire i suoi effetti anche sulle tasche dei consumatori finali.
In altre parole, l’inflazione sembra destinata a rialzare la testa, per di più associata a una crescita economica in frenata, in uno scenario che si avvierebbe quindi verso la stagflazione.
Europa nel mirino
Le tariffe appena decise colpiscono i tre dei principali partner commerciali statunitensi, ma i siluri sono già pronti a essere sganciati anche contro l’Unione Europea che, Trump dixit, sarebbe nata per fregare gli Usa. Il prelievo annunciato sarà del 25 per cento e per quanto riguarda l’Italia l’impatto sui bilanci delle imprese sarà proporzionato all’export verso il mercato statunitense.
A soffrire di più saranno quindi settori come l’alimentare, la meccanica e la moda. A Milano a far segnare i cali più vistosi sono stati titoli industriali, che scontano, oltre all’effetto dazi, anche il temuto rallentamento dell’economia in generale. È il caso di Iveco, Pirelli, Stm e Tenaris in calo tra il 6 e l’8 per cento. I timori di una possibile recessione hanno colpito anche gli istituti di credito, tutti in negativo anche di tre quattro punti percentuali.
Il tonfo peggiore però è stato quello di Stellantis, che ha chiuso la giornata con un ribasso del 10,1 per cento, ai minimi dal 2021. Gli Stati Uniti sono il primo mercato per il gruppo automobilistico Italo-francese, che fabbrica in Messico e Canada buona parte dei modelli destinati agli Usa. E ora Stellantis, al pari altri gruppi concorrenti americani come General Motors e Ford, dovrà trovare il modo di ridurre i danni dei nuovi dazi imposti da Trump.
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