La rivoluzione della televisione è già iniziata. A quando però regole uguali per tutti?

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Gli attori di casa nostra si chiedono come sia possibile competere con le Big Tech che, con regole diverse, non producono in Europa ma qui vengono a fare affari. E c’è poi la questione delle metriche, con i colossi dello streaming restii a farsi misurare l’audience. La nuova puntata della rubrica “Che TV sarà?”

Una medaglia ha sempre due facce e così anche quella che riguarda il nostro viaggio verso la definizione di una Televisione da considerare come nuovo media. Se da un lato è stimolante questo ritrovato approccio da “startup” del “piccolo schermo” e affascinanti sono i risultati della videoevoluzione in atto, dall’altro non può essere un momento scevro da polemiche che col tempo è possibile che andranno sempre più a guidare il cambiamento. Allora nell’appuntamento di questo mese della nostra rubrica andremo a mettere l’accento sule prime polemiche che più potrebbero segnare i prossimi mesi, ricercando in esse spunti per nuovi ragionamenti che ci condurranno a nuove idee per capire Che TV Sarà. La polemica più fresca è solo di qualche giorno fa, l’avete notata?

Berlusconi chiede nuove regole

La quarta di copertina del mio ultimo libro La Nuova Era della Videoevoluzione, ricercando una sintesi esemplificativa di una visione attuale di televisione, recitava profeticamente “Netflix e Canale 5 saranno la stessa cosa”. Sono passati 5 anni da quella pubblicazione e già allora la convergenza tra questi due mondi, raccontati sempre come tanto lontani tra loro, era chiaro fosse solo questione di tempo. E il tempo sembra essere arrivato. Il tempo della consapevolezza che si sta giocando la stessa partita, sullo stesso campo.

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Leggi anche: YouTube, il colosso dello streaming fa da incubatore per nuovi format. Funzionerà?

Così non c’è da stupirsi davanti a quanto dichiarato da Piersilvio Berlusconi al TG5 il 27 febbraio scorso in occasione della presentazione dei risultati economico-finanziari 2024 di MFE-MediaForEurope, dove lancia un appello alla politica e all’opinione pubblica: «La presenza delle Big Tech, di questi giganti, che oggi hanno un enorme potere economico finanziario con poche regole che spesso non seguono, è davvero un qualcosa che rischia di fare male non solo agli editori, ma a tutte le aziende europee e italiane. Noi – chiosa – non chiediamo di essere avvantaggiati, ma semplicemente di non essere svantaggiati rispetto a questi giganti».

È una dichiarazione che penso aprirà un varco. Berlusconi in modo molto chiaro porta così l’attenzione sulla regolamentazione delle Big Tech invitando, visto che il gioco sta diventando lo stesso (lo è già diventato), a fare in modo che anche le regole da rispettare lo siano. Berlusconi, confermando una visione strategica chiara basata su un’innovazione responsabile, mette al centro la crossmedialità, definendo il sistema proposto da Mediaset-MfE «unico, tra i più avanzati per gli inserzionisti pubblicitari». Il connubio tra Tv lineare e VOD, video on demand, (per semplificare) è oramai imprescindibile sia nelle strategie di distribuzione dei contenuti, che nella loro stessa creazione. Come competere con le Big Tech che, con regole diverse, non producono (o poco) in Europa, ma qui vengono a fare affari? Anche in termini occupazionali è un problema da affrontare, presto sempre più evidente.

Telespettatori o utenti?

Un altro nodo da sciogliere è quello della misurazione dei dati, problematica già sollevata dalle righe dei post di questa rubrica. Che li si chiami telespettatori o che li si chiami utenti, sempre individui sono, meglio detti “il pubblico” e di pubblico da contendersi ce n’è uno solo: noi! Sarebbe bene poterlo misurare in modo palese, trasparente e paragonabile, sempre in un’ottica di equità, per un mercato dove metri e misure siano gli stessi per tutti. Come abbiamo visto però le piattaforme di streaming native, le Netflix&Co. per capirci, sono restie a farsi monitorare e cercano di rimandare il più in là possibile quel momento.

Amazon Prime Video sembra farne un problema tecnologico, visto che il sistema proposto da Auditel, la società italiana di rilevazione degli ascolti, imporrebbe delle costose modifiche ai server dell’azienda di Bezos. In alternativa Amazon proporrebbe una misurazione server-to-server, in cui la fornitura dei dati sarebbe chiusa, ma validata da un certificatore esterno. Insomma un po’ sulla fiducia. Modalità simile a quella proposta da Netflix che da tempo si dice in dialogo con i più importanti istituti di ricerca e istituzioni operanti nel mercato italiano su questo fronte. Dialoghi che non sembrano essere ancora arrivati al dunque. Ma fino a che il guadagno delle piattaforme native è stato derivante solo dagli abbonati, il male era minore. Oggi che nei bilanci si è aggiunta la voce della pubblicità, la stessa pubblicità che diversamente potrebbe andare ad altre aziende media, con scelte guidate dalle performance, forse il problema non è più rimandabile.

Gli investitori seguono le mode

Da produttore indipendente specializzato in programmi tv di branded entertainement, ovvero format che “raccontano filosofie e prodotti” delle stesse aziende che li finanziano, ogni giorno ho a che fare con direttori marketing e comunicazione e, seguendo i loro investimenti sul mercato, mi capita di notare che può accadere che le scelte siano guidate dalle mode, non sempre da dati oggettivi. Ma quando gli investimenti non sono sostenuti dai numeri, cosa succede? Il mercato si droga e il confronto tra mezzi e progetti diventa impari.

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Infatti ci sono mezzi, progetti o tipologie di investimento che, grazie a ottime operazioni di comunicazione e marketing, si sono creati “un’immagine di successo”, indipendentemente da ciò che valgono davvero. Bravi loro, ma non benissimo per il mercato, mi verrebbe da dire. Per capire quello che forse temono le piattaforme native, prendiamo un esempio dal passato: il caso MTV, Music Television. Era il 1997 quando approdò in Italia forte di ricerche di mercato che ne enfatizzavano l’influenza sul pubblico dei giovani e un’immagine che la rendeva molto glamour. La raccolta pubblicitaria era arrivata a circa 100 milioni di euro all’anno, una cifra davvero importante per quei tempi. Poi arrivò nel 2012 la rilevazione di Auditel che l’ha pesata solo lo 0,5% del pubblico televisivo. Un dato di share ben lontano dal “percepito” e “venduto”. Da lì a poco l’inversione di rotta degli investitori che portò il progetto a chiudere. Un problema di immagine quindi che temono di avere anche gli over the top nativi?

La qualità dei contenuti

Ma attenzione, se lato piattaforme il contesto dei temi di confronto si sta sempre più chiarendo, c’è un terzo attore pronto a sparigliare le carte, anzi quarto, visto che il mese scorso abbiamo definito così YouTube: i social network con aspirazioni televisive. È il caso di Tik Tok. Nei mesi scorsi abbiamo iniziato a parlarne con la volontà di tornarci sopra alla luce di nuovi rumors, ma già si è capito che non è un caso se la piattaforma cinese si stia muovendo per essere presente su device a lei non propri fino ad oggi. Un’operazione da tenere d’occhio perché apre analisi sul fronte dei contenuti. Per chi si fosse perso quel post, in sintesi Tik Tok si vuole differenziare dagli altri social network definendosi piattaforma di intrattenimento e come tale ambisce a finire sulle Smart Tv (i test sono già in corso).

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Ecco così che i contenuti-spezzatino invaderanno anche i nostri televisori di casa. Questo facilmente ci fa immaginare un tentativo di sconvolgimento nelle modalità di fruizione e di scrittura dei contenuti con cui inevitabilmente saranno tutti chiamati a confrontarsi. Che si apra sulla qualità dei contenuti un nuovo testa a testa tra gli attori della Televisione intesa come nuovo media? Se prima si è parlato della polemica sulle regolamentazioni e poi su quella della misurazione, già sono disponibili gli strumenti per contestare questa new entry: si chiama brain rot.

Si definisce così il deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona causato da un consumo eccessivo di contenuti di bassa qualità. Un termine che ha radici lontane, ma che nella sua accezione attuale inizia a proliferare nel 2020, durante la pandemia, quando le persone costrette a casa hanno cominciato a consumare un’altissima quantità di contenuti brevi. Da quel momento lo scrolling è diventato un’abitudine le cui conseguenze cominciano a essere visibili solo oggi. La combina tra algoritmi e facilità nel creare contenuti ha fatto il resto, innescando un vortice verso il basso della stessa qualità dei contenuti. Questa la denuncia che potrebbe essere l’innesco dell’attacco a Tik Tok e a chi come lui lo seguirà nel caro vecchio nuovo mondo delle Televisione.

Insomma l’ambiente di fa caldo e il nostro viaggio alla scoperta di Che Tv Sarà sempre più stimolante.





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