LA FAMIGLIA di Cesare Pavese (Divergenze)

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“La famiglia” di Cesare Pavese (Divergenze)

Pubblichiamo un estratto del racconto per gentile concessione dell’editore

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Conto e carta

difficile da pignorare

 

A lungo presentato nella raccolta di racconti editi e inediti dell’autore, La famiglia è un’opera nella quale il coefficiente di partecipazione autobiografica di Cesare Pavese, nella persona di Corradino e nell’intensità delle tematiche, tocca il proprio vertice. Divergenze lo presenta in una edizione artigianale, dal colore ispirato alla combinazione cromatica della «Collana viola» di Einaudi creata e diretta da Pavese e da Ernesto De Martino, con approfondimenti e ricerche di una delle studiose più attente del mondo pavesiano.
«Cate si sedette con vivacità sulla panchina dell’ingresso, tenendo sempre la mano di Corradino, accavallando le gambe dalle calze sottili. Aveva unghie e labbra scarlatte e una giacca quasi maschile sulla camicetta accollata: un abito da viaggio, senza dubbio. Della Cate di un tempo non restavano che gli occhi e i capelli. Corradino le cercò in viso i segni degli anni, ma ci vide soltanto un rossore di gaiezza».

– A cura di Marta Mariani –

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L’incipit di “La famiglia” di Cesare Pavese (Divergenze)

Una volta, quando veniva l’estate, andavamo in barca. La si prendeva al ponte, ci si metteva in mutandine, e si arrivava fino ai boschi. Ci stavamo tutto il pomeriggio. Allora che eravamo giovani ci portammo sovente compagnia, ma – come succede – ci stavamo male, e ci volle qualche anno perché capissimo che all’aria aperta queste cose non si fanno. Adesso, ripensandoci, Corradino se ne vergognava.
Quando fummo sui trent’anni, Corradino aveva messo da parte una certa esperienza e credeva di essere lo stesso di allora, ma il giorno che ritornò sul fiume, l’idea di mettersi a remare lo disgustò e, contemplate le barche dall’alto del ponte, risalì sulla bicicletta e tornò a casa. Andò invece il giorno dopo negli stessi boschi, per una lunga strada polverosa e, raggiunto il Sangone per dei sentieri molto più a monte che non fosse mai risalito con la barca trovò un ristagno chiaro e tranquillo, chiuso fra sterpi e cespugli. Il luogo gli piacque, e si spogliò in mutandine, si bagnò, si stese al sole, fumò guardando il cielo tra i salici – trascorse un’ora indimenticabile. Ci tornò con la bicicletta ben presto, e se ne fece – era il mese di luglio – una abitudine. Il pericolo era di fermarcisi troppo e annoiarsi, ma Corradino che da un pezzo aveva cominciato a conoscersi, prese precauzioni e non ci venne mai che sul finire del mattino o un’ora prima del tramonto. Così gli toccava tornarsene con sveltezza.
Tuttavia, una volta giunto su quel greto, faceva sempre le stesse cose. Prendeva un po’ di sole, traversava a nuoto l’acqua sassosa, ne usciva gocciolante e, appendendosi al ramo orizzontale di un albero, si scaldava e irrobustiva con flessioni. Tutto ciò era per godere, con corpo e respiro più freschi, la sigaretta che poi fumava.
Nella vita ordinaria – tutti lo sapevamo – Corradino aveva orrore della solitudine. Viveva in una camera ammobiliata ma frequentava abitualmente le nostre case, e nulla gli faceva più spavento che una serata da trascorrere coi suoi soli mezzi. Fino all’ultimo sperava sempre di ricevere una telefonata o una visita imprevista, ma, per quanto queste cose accadano talvolta proprio nel cuore dell’estate quando la città è semivuota, in quel luglio nessuno si fece vivo e Corradino era abbandonato a se stesso. Perché non affrettasse le sue vacanze e raggiungesse subito al mare certe persone che gli stavano a cuore, non me lo disse. Viveva con un’ansia annoiata, nel lavoro e nelle occupazioni abituali, e rimandava di giorno in giorno le decisioni avendo come unico punto fisso quotidiano la scappata tra i salici. Ben presto il suo corpo cominciò ad abbronzare, e ciò gli pareva desse un senso a quelle giornate, come la muda di certe bestie dà un senso alle loro stagioni. Corradino in gioventù era stato malaticcio e si era guarito con le sudate e il gran sole delle gite in barca. Era convinto che il corpo che giunge all’inverno senza essersi abbronzato, è inerme di fronte ai malanni. Ma la muda di quell’anno – mi disse sovente – gli pareva qualcosa di più che un’igiene: era un ritorno, un ripiegamento su se stesso, condizione attiva di qualche avvenimento che lui sentiva imminente. Aveva di queste manie.

(Riproduzione riservata)

© Divergenze

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undefinedCesare Pavese nasce a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908. Si laurea in Lettere, insegna per qualche tempo, poi inizia a tradurre autori inglesi e americani per vari marchi e a collaborare con la casa editrice Einaudi, di cui diventa una delle figure principali. Autore di romanzi, racconti, poesie, saggi, articoli e prose filosofiche, esordisce nel mondo letterario con la silloge Lavorare stanca (1936) presso Parenti, a Firenze, nelle Edizioni di Solaria, e in pochi anni diventa uno dei maggiori intellettuali del Novecento italiano.
Muore a Torino, suicida, nel 1950. La minuta originale de La famiglia, ritrovata tra le carte di Pavese e pubblicata postuma in un volume che raccoglie tutti i racconti, è dell’aprile 1941.

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