Chi ha paura delle donne

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A partire da un’esperienza biografica femminista che inizia a quindici anni in un collettivo di Potenza, passa da via del Governo Vecchio, attraversa la sinistra ricoprendo diversi incarichi istituzionali a vari livelli di governo e oggi la vede in Senato, Cecilia D’Elia, attualmente vicepresidente della Commissione bicamerale sul femminicidio, ha scritto Chi ha paura delle donne. Libertà femminile e questione maschile (Donzelli Editore, 2025). Un piccolo libro che cerca di dare risposte ad alcune delle impegnative domande che in questi tempi attraversano la testa di molte e che riguardano il nodo tra rappresentanza, politiche, movimento. 

Questo sollevarsi e crescere di una destra populista e feroce è una risposta alla libertà delle donne? È il tentativo di ripristinare un ordine? Come si sono posti i partiti e le donne nei partiti di sinistra, e perché non sembrano riconoscere la centralità dei rapporti di genere e farla propria? Perché il controllo sui corpi delle donne e sulle loro scelte riproduttive è un argomento trasversale a tutti i governi populisti di destra che si sono affermati in vari angoli del pianeta?

Vi anticipo che nel libro non ci sono risposte. Ci sono però spunti per riflettere, e seguire i ragionamenti risulta semplice grazie al punto di vista coerente dell’autrice, che costruisce una lettura femminista capace di tenere insieme istituzioni e movimento e attingere a piene mani all’intelligenza e all’esperienza collettiva. 

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Nella prima parte del libro, D’Elia riflette su come le donne abbiano cambiato radicalmente le proprie vite sia conquistando diritti che prendendosi spazi sociali, e di come alla loro autonomia corrisponda oggi un risentimento maschile che vuole ripristinare ruoli che definiamo “tradizionali”. 

Questo revanscismo maschile si esprime nel tentativo di normare i corpi. Lo vediamo con l’attacco all’aborto e, più in generale, all’autonomia corporea – D’Elia su questo fa proprie le parole di Grazia Zuffa, che afferma che “l’aborto è al centro della restaurazione”. 

Questa avanzata conservatrice e reazionaria, ostile alla libertà delle donne, aspira a una separazione ideale tra pubblico e privato, lavoro e cura, produzione e riproduzione, attribuendo agli uomini il potere e alle donne la subordinazione. 

Eppure, la pandemia da Covid-19, per un attimo, ha illuminato tutto il lavoro di cura, dandoci l’opportunità di riconoscere l’importanza del lavoro invisibile, sottostimato e sottopagato che le donne svolgono dentro e fuori le case, che non solo è stato reso visibile, ma è apparso anche chiaro quanto fosse indispensabile, essenziale. 

Nel libro vengono sottolineati due aspetti particolarmente interessanti relativi al tempo della pandemia: il primo è che c’è stato un dibattito pubblico che ha visto le donne reattive, pronte a coordinarsi, fare proposte, elaborare piani, pretendere di non essere tagliate fuori né dalla gestione dell’emergenza né da quella della ripresa. E anche vigili: durante il periodo Covid sono stati prodotti dati e analisi per raccontare quello che stava succedendo, che hanno sostenuto proposte e dato strumenti per presidiare quel dibattito pubblico in tempo reale. 

Il secondo aspetto è che avevamo bisogno di un pensiero capace di ripensare la cura e di metterla al centro. Questo pensiero è il femminismo, che in un momento di così grande vulnerabilità ha dimostrato la sua universalità e di essere uno strumento per ripensare la società e le relazioni di potere, sovvertendo i paradigmi dell’ordine patriarcale e capitalista. 

Da qui, D’Elia fa entrare il bisogno di avere un femminismo istituzionale che sia cerniera tra il movimento e le politiche e abbia la capacità di produrre strumenti per il cambiamento, e ne costruisce una genealogia, mettendosi in relazione con la storia delle donne nella Repubblica. 

Non lo fa in modo ingenuo. L’autrice sa che il femminismo istituzionale senza il movimento diventa burocrazia delle pari opportunità, e cita Bianca Pomeranzi: “il ruolo delle femministe nelle istituzioni, fino ad allora considerato anello di congiunzione tra istituzioni e movimenti femministi, fu sostituito dalla comparsa di un’élite, le femocrati, che assumevano il tema dell’uguaglianza tra uomini e donne come rivendicazione di carriera e quello del mainstreaming come inclusione delle donne nelle strutture di potere”. 

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Senza il movimento, il femminismo istituzionale perde la sua carica trasformativa, diventa una richiesta di spazio e potere per un manipolo di privilegiate, diventa “donnismo”. 

Per chiudere, Cecilia D’Elia ragiona su quanto le ragioni dei femminismi e dei transfemminismi contemporanei, le idee e le vite delle donne, dovrebbero essere al centro della progettualità di una agenda di sinistra. Il gioco, tra l’altro, sarebbe facile: basterebbe, come ricorda l’autrice, riconoscere le istanze del proprio elettorato, visto che le donne sono il motore elettorale delle agende progressiste, in Italia e ovunque nel mondo.

Per approfondire

Cecilia D’Elia, Chi ha paura delle donne. Libertà e questione maschile, Donzelli Editore, 2025



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