La camera di Amore e Psiche, che accoglie con un banchetto l’imperatore Carlo V nel 1530, è impreziosita dalle decorazioni più complesse ed esteticamente ricercate di tutto il palazzo. La sua narrativa si articola in tre diversi momenti: il racconto preponderante dell’amore tra Psiche ed Eros, tratto dalle Metamorfosi di Apuleio; le storie degli amori di Polifemo e Galatea, Venere e Adone, Marte e Venere, Bacco e Arianna, Pasifae e il toro, tratti dalle Metamorfosi dal racconto ovidiano; la scena di Giove e Olimpiade, ispirata invece dalla Vita di Alessandro di Plutarco.
Nella sala trionfa il mistero di Eros, dio del desiderio, che rivela tutta la sua essenza nella favola di Apuleio. Psiche è una giovane mortale di rara bellezza, ostacolata dall’invidia di Venere, ma ricambiata dell’amore del dio. Secondo James Hillman, psicoanalista e filosofo, Psiche è l’anima che si innamora dell’innamoramento inabissandosi in prove terribili che alla fine si concludono felicemente, con il matrimonio e l’assunzione nell’Olimpo.
La favola di Apuleio, molto studiata e commentata per la sua intonazione iniziatica e archetipa, è la celebrazione del desiderio d’amore, forza creatrice di umanità. Un’umanità capace di follia, ma anche di una trasformazione che la rende degna degli dèi.
Amore e Psiche: la divinizzazione dell’anima
Apuleio compone le Metamorfosi tra il 160 e il 180 d.C. lasciandosi ispirare da Ovidio. L’opera è conosciuta anche con il titolo di Asinus aures (Asino d’oro), con il quale la indica la prima volta Agostino. Nel racconto, tra il IV e il VII libro, il protagonista Lucio, già trasformato in asino, è portato da alcuni briganti in una caverna custodita da una vecchia. La notte successiva i briganti vi conducono anche una giovane donna, Carite, imprigionata per richiedere un riscatto. La vecchia, per consolare la fanciulla, racconta la favola di Amore e Psiche, a cui Giulio Romano dedica il ciclo di affreschi alle pareti e nel labirinto di scene del soffitto della camera.
“Bevi Psiche e sii immortale! Eros non ripudierà il vincolo che lo unisce a te. Da oggi siete marito e moglie per l’eternità. Immediatamente fu servito un sontuoso banchetto di nozze. Lo sposo stava sdraiato sul letto più alto tenendo Psiche tra le braccia e così faceva Giove con Giunone, e così tutti quanti gli dèi in ordine di grado e dignità. Ben presto incominciò a circolare il nettare che è la loro bevanda speciale e a Giove lo versava il celebre pastorello suo coppie-re, a tutti gli altri Bacco. Vulcano cucinò il pranzo, le Ore avvolgevano ogni cosa di una nube porporina di rose e di altri fiori; le Grazie spargevano profumi e le Muse deliziavano i presenti facendo echeggiare la loro voce melodiosa. Apollo cantò accompagnandosi con la lira e anche Venere entrò attivamente nella festa facendo armoniosi passi di danza al soave ritmo della musica di un concerto che lei personalmente aveva così predisposto: le Muse facevano il coro, Satiro suonava il flauto, mentre un piccolo Pan cantava accompagnandosi con la zampogna. In questo modo Psiche fu data in sposa ad Eros con tutte le formalità del rito e quando i tempi per il parto furono maturi nacque dalla loro unione una figlia che chiamarono Voluttà”.
(Apuleio, Metamorfosi, VI, vv. 23-24, Aquarelli, Demetra 1993)
Amori e metamorfosi
- Il bagno di Marte e Venere
Venere, moglie di Vulcano, si innamora di Marte e con lui tradisce il marito nella propria camera nuziale. Apollo scopre l’adulterio e lo rivela a Vulcano che si vendica costruendo una rete invisibile per legare i due amanti. Colti in fragrante, Marte e Venere sono derisi da tutti gli dèi.
L’affresco presenta gli amanti Marte e Venere mentre fanno il bagno. A sinistra c’è Amore, un giovanetto adolescente, con la faretra sulle spalle, che si affretta verso Marte con un telo per asciugarlo. La parte destra dell’affresco è occupata dalla dea, assistita da puttini che versano acqua da un vaso o le porgono profumi. Uno di questi si appresta ad asciugarle la schiena. In mezzo a questa giostra di putti la dea esce dall’acqua con i lunghi capelli sulle spalle volgendo lo sguardo all’amante.
“Si pensa de questo dio (il Sole) fosse il primo ad accorgersi dell’adulterio di Venere con Marte: questo dio vede tutto per primo. Si indignò, e a Vulcano, figlio di Giunone e marito di Venere, rivelò quei segreti convegni, e il luogo di quei convegni. E a Vulcano cascarono le braccia, nonché il lavoro che teneva nella sua mano d’artefice. Appena si riprese, fabbricò con estrema cura sottilissime catene di bronzo e con esse una rete e lacci tali da sfuggire alla vista (…). E fece in modo che scattassero al piú leggero tocco e al minimo movimento, e dispose il tutto opportunamente intorno al letto. Quando Venere e l’amante andarono insieme a letto, tutti e due rimasero pesi in quella trappola meravigliosa e di nuova invenzione preparata dal marito, immobilizzati nel bel mezzo dell’amplesso. Il dio di Lemno spalancò di colpo la porta d’avorio e fece entrare gli dèi. I due giacevano legati in posa vergognosa, e qualcuno degli dèi meno severi osservò che non gli sarebbe spiaciuto esser svergognato cosí.”
(Ovidio, Metamorfosi, IV, vv. 169-189)
- Bacco e Arianna
Per amore di Teseo, Arianna suggerisce all’eroe di dipanare un filo nei meandri del labirinto, dove sconfigge il Minotauro, per riuscire a trovare la via d’uscita. Facendo vela verso Atene, l’ingrato Teseo abbandona Arianna sull’isola di Nasso. Bacco giunge in soccorso della principessa, rimasta sola e disperata, e la avvolge in un abbraccio amorevole come rappresenta Giulio Romano nell’affresco. Per immortalarla con una costellazione le sfila il diadema e lo scaglia in cielo: le gemme della corona trasformandosi in stelle si fissano nel firmamento tra la costellazione di Ercole e quella di Ofiuco.
“E lei rimasta sola si lamentò disperatamente, finchè Bacco venne a portarle abbracci e aiuto, e, per immortalarla con una costellazione, le tolse dalla fronte il diadema e lo scagliò nel cielo. Vola quello leggero nell’aria e mentre vola, le gemme si mutano in fulgidi fuochi, che mantenendo forma di una corona, vanno a fermarsi a mezza via tra l’Inginocchiato e Colui che tiene il serpente.”
(Ovidio, Metamorfosi, VIII, vv. 176-182)
- Marte, Venere e Adone
Adone è uno degli amanti di Venere, nato dall’amore incestuoso di Mirra con suo padre Cinira, re di Cipro, al quale la giovane si era unita attraverso un sotterfugio. Scoperto l’inganno, Cinira aveva cercato di punire la figlia ma gli dèi decidono di salvarla trasformandola in un albero, dalla cui corteccia nasce Adone. Il bellissimo giovane è allevato dalle Naiadi e Venere si innamora di lui quando viene involontariamente colpita da una freccia del figlioletto Eros. Un giorno, durante una battuta di caccia, Adone è ucciso da un cinghiale inviato dal geloso Apollo. Dal sangue del giovane morente crescono gli anemoni e da quello della dea, ferita tra i rovi mentre corre a soccorrerlo, nascono le rose rosse, come si può vedere nell’affresco.
Giulio Romano rappresenta Marte che irrompe nelle sale di Venere preso dalla gelosia e sguaina la spada per colpire Adone.
“Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangu sarà mutato in un fiore. Se un giorno a te fu permesso, o Persèfone, di trasformare il corpo di una donna in una pianta di menta profumata, perché io dovrei essere rimproverata se trasformo il figlio di Cínira?” Detto questo, versò nèttare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare, cosí come nel fango si formano, sotto la pioggia, bolle iridescenti. E un’ora intera non era passata: dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melograno i cui frutti celano tanti granelli sotto la duttile buccia. E un fiore, tuttavia, che dura poco. Fissato male, e fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali”.
(Ovidio, Metamorfosi, X, vv. 725-739)
- Giove e Olimpiade
Giove, in forma di serpente, seduce Olimpiade, moglie del re macedone Filippo II e madre di Alessandro Magno. Il marito tradito spia la scena nascosto dietro l’uscio, ma l’aquila di Giove punisce la curiosità del re, colpendo il suo occhio con il fulmine che sorregge con gli artigli. Non presente nelle Metamorfosi di Ovidio, la storia è raccontata da Plutarco nella Vita di Alessandro e rappresenta con efficacia le trasformazioni metamorfiche ed erotiche del dio e la sua onnipotenza.
“Un’altra volta fu visto un serpente disteso al fianco di Olimpiade dormiente; si dice hce soprattutto questo attenuò lle manifestazioni d’amore di Filippo per lei, tanto che non andava più di frequente a giacere con lei, o per timore di pratiche magiche della donna, o per evitare rapporti con chi era forse la compagna di un essere superiore.
(…) Filippo, (…) avrebbe comunque perso l’occhio accostato alla fessura della porta quando aveva osservato furtivamente il dio che in forma di serpente giaceva con la donna”.
(Plutarco, Vite – Alessandro, 2, 6 e 3, 1-2, UTET 1996)
- Polifemo, Aci e Galatea
Ovidio nelle Metamorfosi racconta del rapporto del ciclope Polifemo con Galatea, ninfa del mare, innamorata del bellissimo pastore Aci e da questi ricambiata. Attratto dalla bellezza di Galatea, Polifemo cerca di sedurla suonando il flauto ma viene respinto. Quando il ciclope trova i due amanti in riva al mare, spinto dalla gelosia, uccide Aci con un masso di lava. Galatea, disperata per aver perso il suo amato, trasforma il sangue in una sorgente per poter mantenere vivo il loro amore. Nell’affresco posto sopra al camino Giulio Romano presenta il ciclope come un gigante con un grande occhio sulla fronte e tra le mani una siringa e una clava. Il piccolo orso nella cavità della roccia allude a un dono per l’amata Galatea, rappresentata con Aci in riva al fiume che prende il suo stesso nome.
“Il Ciclope l’insegue e staccato un pezzo di monte glielo scaglia, e benché soltanto uno spigolo del masso colpisca Aci, pure quello spigolo schiaccia Aci completamente (…). Da sotto il masso filtrava un sangue rosso cupo: in capo a breve tempo il rosso comincia a impallidire e diventa prima color di fiume intorbidito dalla pioggia, e a poco a poco si depura ancora. Poi il macigno si fende e tra le crepe spuntano canne fresche ed alte, e la bocca apertasi nella roccia risuona d’acqua che spiccia.
Fatto prodigioso, all’improvviso si erse, fino a metà del ventre, un giovane con due corna tutte nuove inghirlandate di canne, un giovane che, se si toglie che era più grande e aveva il volto tutto celestino, era Aci tale e quale. Ma anche con queste differenze era Aci davvero, trasformato in dio fluviale; e come fiume conservò il nome che aveva prima”
(Ovidio, Metamorfosi, XIII, vv. 881-897)
- Pasifae e il toro
Poseidone invia a Minosse, re di Creta, un bianchissimo toro affinché venga sacrificato in suo onore. Il re però non obbedisce al dio e sacrifica un altro animale. La vendetta divina non tarda ad arrivare: la regina Pasifae sviluppa una passione così folle per il toro da desiderare ardentemente di unirsi ad esso e, decisa a soddisfare il proprio impulso, chiede aiuto a Dèdalo. L’inventore le costruisce una vacca di legno cava nella quale entrare per consumare il rapporto, come viene rappresentato nell’affresco di Giulio Romano. Fecondata dal toro, Pasifae darà alla luce il Minotauro.
“È tua degna consorte colei che ti ha tradito con un truce toro, seducendolo a inganno con una forma di legno, e che ha portato nell’utero il feto mostruoso. (…) Ormai non è più strano che Pasifae abbia preferito un toro a te, tu eri più bestiale di un toro (…) Minosse sciolse i voti fatti a Giove, sacrificando cento tori, e decorò di trofei i muri della reggia. Ma intanto l’obbrobrio della famiglia era cresciuto: il mostro biforme, mai visto, dimostrazione vivente dell’immondo adulterio di Pasifae. Minosse decide di allontanare di casa quest’essere che infama il suo matrimonio e di rinchiuderlo nei ciechi corridoi di un complicato edificio.”
(Ovidio, Metamorfosi, VIII, vv. 131-158)
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