Per il Consiglio di Stato legittimo il divieto di fumo all’aperto. Bene, ma ora occupiamoci del resto

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Il Comune di Milano sin dal 2021 ha imposto alcune limitazioni per aree pubbliche ed ora, dal 1 gennaio 2025, ha prescritto che “il divieto di fumo è esteso a tutte le aree pubbliche o ad uso pubblico, ivi incluse le aree stradali, salvo in luoghi isolati dove sia possibile il rispetto della distanza di almeno 10 metri da altre persone”, prevedendo, in caso di inosservanza, una sanzione pecuniaria da 40 a 240 euro. E prima il Tar Lombardia e adesso anche il Consiglio di Stato (sez. 3, n. 1111/25) hanno dichiarato queste disposizioni del tutto legittime, respingendo i ricorsi presentati per il loro annullamento, incentrati soprattutto sulla incompetenza del Comune, dato che la tutela della salute spetta a Stato e Regioni.

In proposito, il CdS ha precisato che, in realtà, questi provvedimenti hanno un altro obiettivo primario, cioè quello di “rimuovere una situazione di degrado ambientale attraverso il contenimento delle immissioni inquinanti, tra cui il particolato atmosferico (PM10) derivante anche dal consumo di tabacco” in quanto a Milano l’inquinamento atmosferico di prossimità sta “assumendo una notevole rilevanza in termini di impatto locale” anche a causa del fumo di tabacco che, in Lombardia, è la quarta principale fonte emissiva di particolato atmosferico (7%), dopo il traffico stradale (45%), le pizzerie con forno a legna (19%) e i processi produttivi (8%), con la ovvia conseguenza della esposizione al fumo passivo specie per le persone vicine.

Non a caso – ricorda sempre la sentenza – secondo i dati più recenti, a Milano il valore relativo al numero massimo annuo di giorni di superamento della soglia di concentrazione media giornaliera di 50 ug/m3, pari a 35 giorni, non è mai stato rispettato fin da quando sono iniziate le misurazioni. E anche il Comune deve “concorrere agli obiettivi nazionali e sovranazionali di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema … e di prevenzione dei cambiamenti climatici”.

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Insomma – conclude la sentenza – la tutela dell’ambiente “in ogni sua declinazione”, ivi compresa quella ‘urbana’, è un compito demandato a “tutti gli enti di cui si compone la Repubblica”, incluso il Comune ed è del tutto “ragionevole e proporzionato” il divieto di fumare laddove non è possibile garantire il rispetto della distanza di almeno 10 metri da altre persone, in quanto esso contribuisce a ridurre il degrado ambientale e il pregiudizio alla vivibilità urbana.

Se, a questo punto, allarghiamo la sguardo a livello nazionale, bisogna ricordare che l’Italia, con l’entrata in vigore, a gennaio 2005, della legge Sirchia (n. 3/2003) è stata il primo grande paese europeo ad introdurre una normativa per vietare il fumo in tutti i luoghi chiusi, ad eccezione dei locali per fumatori e degli ambiti strettamente privati (le abitazioni civili); e, dal 2016 (D.Lgs. n. 6/2016), ha stabilito il divieto di fumo in autoveicoli in presenza di minori e donne in gravidanza nonché nelle pertinenze esterne degli ospedali e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e dei singoli reparti pediatrici, ginecologici, di ostetricia e neonatologia.

Tornando a Milano, bisogna dire che comunque la regolamentazione comunale sopra ricordata presenta diversi punti oscuri e critici: in primo luogo, non si capisce perché il divieto riguardi solo i prodotti del tabacco e non le sempre più diffuse sigarette elettroniche, additate dall’Oms (Organizzazione Mondiale per la Sanità) come prodotti contenenti quantità variabili di “nicotina e altre sostanze tossiche dannose sia per gli utenti che per i non utenti esposti agli aerosol di seconda mano”, con evidenza di effetti acuti e cronici sul sistema cardiopolmonare.

Così come occorre dire che la normativa milanese presenta difficoltà di controllo perché i vigili urbani, una volta individuato il fumatore trasgressivo all’aperto, dovrebbero calcolare i 10 metri di distanza dalle altre persone anche in situazioni fluide dove le persone (incluso il fumatore) possono muoversi. Forse è anche per questo che a Milano, fino al 5 febbraio, sono state comminate appena 19 sanzioni, di cui solo 12 sono state fatte perché il trasgressore si trovava a meno di 10 metri dalle altre persone. Vedremo se aumenteranno quando, con la bella stagione, dehors e tavolini all’aperto copriranno fittamente vaste aree pubbliche.

A questo punto, resta solo da esprimere un giudizio su questa normativa di Milano appena confermata dal Consiglio di Stato. Diciamo subito che, a mio sommesso avviso, qualunque iniziativa contro il fumo, anche passivo, deve essere vista con favore. Tutti i dati scientifici confermano che chi è esposto al fumo passivo ha un rischio di sviluppare un cancro al polmone raddoppiato rispetto alle persone non esposte (un morto ogni mille persone) e che i figli di genitori fumatori hanno una maggiore incidenza di polmoniti, di bronchiti e crisi asmatiche rispetto ai figli di genitori non fumatori. E non a caso l’Oms ritiene che “una quota variabile fra il 4 e il 18 per cento dei casi di asma infantile sia dovuta al fumo passivo”.

Tuttavia va anche bene evidenziato che, ovviamente, uguale decisione e severità dovrebbero essere adottate a carico di tutte le altre attività inquinanti, ad iniziare dai processi produttivi e dal traffico, certamente ben più nocive, per il degrado ambientale e la salute, del fumo di sigarette. E non a caso la sentenza del CdS ricorda che la Corte di giustizia europea ha già condannato l’Italia per “superamento sistematico e continuato dei valori limite applicabili alle microparticelle (PM10) in determinate zone e agglomerati italiani”, tra cui proprio Milano che, insieme a Frosinone, detiene il primato della città più inquinata d’Italia e finora ha fatto ben poco (il nostro paese ha già ricevuto una lettera di messa in mora per inadempimento).

Si rischia, altrimenti, che la lotta al fumo diventi la foglia di fico per coprire le tante inadempienze, ad iniziare dalla carenza di controlli, in tema di tutela dell’ambiente e della salute.



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