Israele blocca l’ingresso di aiuti a Gaza

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«Lo stop agli aiuti umanitari significa che i palestinesi non mangeranno. È semplice». La giornalista palestinese Hind Khoudary riassume così, in poche durissime parole, la decisione annunciata stamattina all’alba dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: stop all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza.

«Con la fine della fase uno dell’accordo sugli ostaggi – si legge nel comunicato di Netanyahu – e alla luce del rifiuto di Hamas di accettare la proposta Witkoff a cui Israele ha aderito, il primo ministro ha deciso che a partire da questa mattina tutti gli ingressi di beni dentro la Striscia di Gaza cesseranno».

IL RIFERIMENTO è al piano messo sul tavolo dall’inviato statunitense Steve Witkoff a cui, ieri notte, il gabinetto israeliano ha dato la sua luce verde: nessun passaggio alla fase due (sarebbe dovuta partire ieri) ma estensione della prima fino al 20 aprile con nuove condizioni per mantenere la tregua. Ovvero il rilascio di metà dei 59 ostaggi israeliani ancora a Gaza (di cui si stima che meno della metà siano ancora vivi) nel primo giorno dell’accordo e della seconda metà alla fine, un lasso di tempo che coprirebbe sia il mese sacro islamico di Ramadan sia la Pasqua ebraica.

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Secondo l’inviato Usa, in questo periodo, si dovrebbe discutere del futuro e della fine permanente della guerra. Di fine della guerra si sarebbe in realtà dovuto iniziare a discutere un mese fa: secondo l’accordo tra Israele e Hamas, al 16esimo giorno dall’entrata in vigore della tregua – il 19 gennaio scorso – i team negoziali avrebbero dovuto sedersi di nuovo a un tavolo per definire i dettagli della fase due, che avrebbe comportato il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza e la fine dell’offensiva.

Non è mai accaduto. Israele, su ordine di Netanyahu e nonostante le proteste delle famiglie degli ostaggi, ha boicottato il dialogo rinviando di settimana in settimana la discussione e non rispondendo alla proposta di Hamas: il movimento islamico palestinese si è detto più volte disposto a rilasciare i 59 ostaggi in una sola volta in cambio del ritiro israeliano e della fine della guerra.

ORA NETANYAHU forza la mano nel solito modo: la punizione collettiva dei palestinesi, già ridotti allo stremo, affamati e senza rifugi. La decisione di non fare entrare aiuti sarà catastrofica, anche a causa dei ritardi con cui in queste settimane i camion sono entrati a Gaza. A causa dei blocchi israeliani, l’accordo è stato più volte violato: non sono entrati nella Striscia i 600 camion giornalieri previsti, non è entrato nessun macchinario pesante necessario a rimuovere le macerie, sono entrate solo 19mila delle 200mila tende previste e non è entrata nessuna delle 60mila casette mobili destinate alla popolazione civile.

La mattinata è trascorsa, a Gaza e a Tel Aviv, in modo molto diverso: i palestinesi – riportano i giornalisti sul posto – sono disperati; i ministri del governo gongolano. Il ministro delle finanze ed esponente dell’ultradestra, Bezalel Smotrich, ha parlato di «passo nella giusta direzione…(Israele deve) aprire le porte dell’inferno il prima possibile e con la massima violenza contro un nemico senza pietà, fino alla vittoria totale».

Il ministro degli esteri Sa’ar ha accusato Hamas di aver rigettato la proposta di Witkoff, ha ringraziato Netanyahu per il blocco degli aiuti e ha detto che il passaggio alla seconda fase «non è gratis». Dimentica fosse nell’accordo che il suo governo ha firmato. Il ministro dell’educazione Kish parla di decisione «importante e corretta», quello alle comunicazioni Karhi evoca per Hamas «fuoco e zolfo».

Anche l’ex ministro della sicurezza nazionale, l’ultranazionalista e fascista, Itamar Ben-Gvir, festeggia. Dopotutto lui di affamare Gaza lo dice da quasi due anni: «Meglio tardi che mai – ha scritto su X – Ora è tempo di aprire le porte dell’inferno, tagliare elettricità e acqua, riprendere la guerra e più importante non accordarsi per la liberazione di solo metà degli ostaggi».

LA RISPOSTA di Hamas arriva a stretto giro: dopo essersi di nuovo detto pronto a passare subito alla seconda fase, accusa Tel Aviv di «golpe» contro l’accordo e di «crimine di guerra» e chiede ai mediatori di intervenire per costringere Israele a rispettare quanto firmato a metà gennaio. Un accordo che Netanyahu sta boicottando in ogni modo: vuole lasciarsi le mani libere per poter riprendere l’offensiva.

E mentre nel nord della Striscia ieri si piangeva un altro ucciso nell’attacco di un drone israeliano – non sono mai cessati –  e a Khan Younis un carro armato ammazzava quattro palestinesi, l’intera popolazione resta in attesa. In mezzo a una distruzione apocalittica, senza cibo a sufficienza, privata delle proprie case, del diritto alla salute, all’educazione e una vita dignitosa, ora assiste a una replica di quanto avvenuto 16 mesi fa: ministri e politici israeliani che rivendicano la fame e la sete come arma di guerra.

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Gli stessi appelli e le stesse decisioni che a gennaio 2024 hanno convinto la Corte internazionale di Giustizia ad accettare il caso presentato dal Sudafrica che accusa Israele di genocidio e che a metà novembre hanno spinto la Corte penale internazionale a spiccare mandati di arresto per il premier Netanyahu e per l’allora ministro della difesa Gallant.

Crimini di guerra che vengono annunciati e commessi, mentre i paesi europei – firmatari dello Statuto di Roma e membri della Corte penale – fanno a gara per rassicurare Netanyahu che no, non lo arresteranno mai.



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