Il capitalismo feudale e predatorio che emerge dal dibattito sulle terre rare

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In quest’epoca di “anti-democrazia” la discussione intorno all’accordo tra Usa e Ucraina apre una serie di spiragli per capire meglio quali sono le forze che muovono oggi i padroni del mondo 

Concediamo a Donald Trump di averci costretto ad abbandonare la postura da cronisti riluttanti. Quelli che con certosina pazienza pesano le parole sulla bilancia della cautela e, pur riconoscendo la gravità delle cose, si affannano subito a dire che nulla è perduto, che possediamo gli anticorpi e che il passato non tornerà.

Forse smetteremo d’affidarci ancora alla categoria di postdemocrazia per definire ciò che viene dopo la crisi della democrazia liberale. Parola quasi “hegeliana”, perché fa i conti con il superamento della democrazia tradizionale ma rassicura pudicamente sul fatto che quel che c’è ora conserva ancora qualcosa della democrazia stessa, magari solo la forma. Ecco, Trump rivela che possiamo mandare in soffitta ogni conservazione possibile.

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Ciò che sta avvenendo in quella che si è sempre autocelebrata come la più grande democrazia del mondo non è una semplice trasformazione, benché radicale. La democrazia è il bersaglio principe verso cui si rivolgono la furia e l’azzardo del nuovo regime di governo fondato sull’intesa tra autocrazia di stato e capitalismo selvaggio. Altro che postdemocrazia, chiamiamola anti-democrazia piuttosto.

Patrimonialismo 

Prendiamo questa storia della “terre rare”. Elegante tecnicismo geopolitico che improvvisamente egemonizza il nostro immaginario: in una settimana siamo passati tutti dall’essere esperti di Sanremo all’esserlo delle terre rare. Il problema è che la questione delle “terre rare” dice molto di più delle semplici “terre rare”. Segnala piuttosto dei veri e propri tic dei nuovi padroni del mondo che, con atteggiamento analitico, possono essere dei varchi per capire dove stiamo andando.

Il primo tic è una sorta di patrimonialismo. Nessuno è così ingenuo da pensare che la politica internazionale sia fatta di gesti gratuiti e non di scambi interessati. Tutti sappiamo che il piano Marshall non era figlio della compassione statunitense, ma si contestualizzava all’interno di un sistema di influenze ben preciso. Ciò a cui assistiamo adesso mi pare essere una disarticolazione della nozione di scambio, che è fondata su una vera e propria fissazione patrimoniale.

La convinzione che l’unico movente razionale legittimo che muove le relazioni internazionali sia l’espansione territoriale. La geopolitica ridotta al Risiko: hai voluto il mio aiuto? Allora mi dai la Kamchatka oppure le terre rare. Tradurre tutta la complessità degli scambi politici nell’ossessione di possedere la terra, di patrimonializzarla in forma diretta o indiretta ma comunque esplicita.

Che siano le terre rare o la Groenlandia o persino Marte. Ma tutto questo non è nulla di nuovo, in effetti. Ci riporta all’ossessione – gli Stati Uniti ne sanno qualcosa – della conquista delle terre come unico modo di misurare la grandezza di una nazione.

Il feudalesimo e predazione 

Un altro tic che il ghigno politico di Trump manifesta è una forma di feudalesimo. La non neutralità del potere è ormai un postulato della politica: chi ha il potere di decidere le regole del gioco pretende di deciderle, anche se egli stesso sta giocando quel gioco. Così viene meno ogni nozione di negoziazione e resta semplicemente la forma brutale del ricatto. Che è nient’altro che un rapporto elementare fondato sulla violenza.

Qualcuno ha giustamente ricordato la conferenza di Yalta. Ma fu anche per evitare che uno dei giocatori potesse decidere come finisce il gioco che in quegli stessi mesi si istituiva l’Onu. Anche questo tic non è una novità: un ritorno al potere feudale, in cui il potente non è colui che vince il gioco ma è colui che ha il diritto di decidere del gioco che poi vincerà. Il gioco è truccato, ma i bari lo rivendicano con orgoglio.

Infine, il tic della predazione capitalistica. Le “terre rare” ci raccontano della brutalità tradizionale che sta a fondamento della cosiddetta rivoluzione digitale. Da questo punto di vista il ghigno di Trump svela l’attualità di Marx: se può esserci capitalismo digitale, immateriale, finanziarizzato è perché non può non esserci lo sfruttamento di terre e di lavoratori.

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Anche qui, quel che ci sorprende come una novità non è che una regressione: l’ennesimo ciclo del capitalismo come accumulazione originaria. A quanto pare, gli stati servono ormai a questo: esportare ed espandere l’estrazione di valore da parte del capitale. Il che, magari, è anche un bene: almeno la finiamo con la vecchia storiella ipocrita per cui l’Occidente muove le guerre per esportare la democrazia.

Eppure a me pare che tra quella storia ipocrita e la brutale sincerità di Trump ci siamo persi qualcosa di prezioso: ogni speranza che la politica possa fare meglio, nonostante la crudeltà che c’invade.

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