I genitori di Andy Rocchelli: «Siamo stati abbandonati dall’Italia»

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Sono passati oltre dieci anni dall’uccisione nel Donbass del fotografo italiano Andy Rocchelli. Una mostra a Roma ricorda i suoi scatti: «In tutto questo tempo il governo italiano non ne ha mai chiesto conto a Kiev»

Elisa Signori e Rino Rocchelli conoscono a memoria le foto scattate dal figlio Andrea. Conoscono i personaggi ritratti, le storie che si celano dietro le stampe e sono capaci di ricostruire al dettaglio la genesi dei viaggi che lo hanno portato in diverse parti del mondo, dall’Afghanistan al Caucaso, passando per il Nord Africa durante il periodo delle rivoluzioni del 2011.

Raccontano il duro lavoro di quando era freelance; di quando si appoggiava ad associazioni e ong per attutire i costi dei viaggi, come fanno i precari ancora oggi; la buona notizia di quando riusciva a vendere i suoi scatti. E poi la nascita del collettivo indipendente Cesura, dove Andy Rocchelli è cresciuto a livello professionale, prima di essere ucciso nel Donbass il 24 maggio del 2014, mentre documentava il conflitto civile scoppiato tra i separatisti filorussi e l’esercito di Kiev.

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«Ogni foto è preziosa allo stesso modo, non ne abbiamo una preferita», rispondono i genitori mentre guardano la mostra – coprodotta dal collettivo Cesura e dall’associazione Amici di Roberto Morrione – esposta nella sede dell’associazione Libera contro le mafie a Roma fino al 17 marzo.

Ma c’è una foto in particolare che cattura più di altre. È stata scattata dall’alto verso il basso e ritrae nove bambini nascosti in un rifugio durante i bombardamenti nel Donbass.

Da Piazza Maidan al fronte

Andrea Rocchelli si era recato nell’Ucraina orientale per raccontare il conflitto attraverso gli occhi dei civili. Prima ancora era stato in Afghanistan per documentare i campi profughi e le emergenze umanitarie. In Libia, in Tunisia e in Egitto per fotografare le rivoluzioni. E poi, ancora, in Inguscezia nel 2009 per denunciare le violenze dei corpi di polizia.

Man mano che si attraversa la mostra, cambiano i luoghi e i protagonisti fino a quando lo sguardo non si posa su una grossa foto che ritrae una folla riunita in protesta. Sono i giorni in cui migliaia di ucraini sono scesi in Piazza Maidan contro il governo filorusso di Viktor Yanukovych.

«Andy aveva deciso di seguire le proteste tutto il giorno e la sera inviava le foto ai colleghi di Cesura che lo aiutavano con la post produzione», racconta la madre mentre raddrizza la didascalia sbilenca di una fotografia. Le manifestazioni di piazza Maidan lo hanno portato poi al fronte per documentare le condizioni dei civili travolti dalla guerra.

Qui il 24 maggio del 2014 Andy Rocchelli è stato vittima di un agguato nella periferia di Sloviansk. Si trovava insieme al suo amico nonché traduttore Andrei Mironov, un ex prigioniero politico russo e difensore di diritti umani, al fotografo francese William Roguelon e un autista locale. Stavano scattando foto nei pressi di un passaggio ferroviario quando hanno cominciato a colpirli dall’alto della collina Karachun.

Si sono riparati in un fossato e il fuoco è continuato contro di loro con artiglieria leggera e poi pesante. «I soldati ucraini hanno mirato quel fossato per 40 minuti ininterrottamente fino a quando non li hanno uccisi», spiega il padre. Mironov e Rocchelli sono stati uccisi, il fotografo francese ha ancora una scheggia di mortaio irremovibile nella gamba. Per pochi millimetri non gli ha trafitto l’arteria femorale.

Le foto trovate nel 2016

A immortalare quell’attacco deliberato contro quattro civili ci sono una serie di fotografie che Rocchelli ha scattato prima di morire. Sono state ritrovate nel 2016 in una scheda di memoria nascosta in una tasca interna della custodia della sua macchina fotografica. «Rappresentano gli ultimi secondi della sua vita», racconta Rocchelli emozionato.

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Scatti che rappresentano una testimonianza essenziale contro i depistaggi delle autorità ucraine, che avevano accusato Mironov di essere un combattente separatista perché indossava una tuta militare. Quelle foto testimoniano tutt’altro: Mironov quel giorno indossava abiti civili di colore grigio, così come Andrea Rocchelli. Inconfondibili agli occhi dei militari.

L’uccisione e i depistaggi

«Sono dieci anni che ho smesso di lavorare per dedicarmi a questa vicenda», dice Rino Rocchelli. Dal 2014 a oggi ha visionato centinaia di filmati e immagini e ha parlato con decine di persone nella speranza di capire non tanto cosa è accaduto quel giorno, ma i mandanti dell’attacco. È stato certificato anche dalla giustizia italiana che dalla collina limitrofa i soldati ucraini hanno sparato contro il fotografo italiano e chi si trovava con lui. Non è stato un attacco incidentale. Tuttavia, non sono mai stati puniti i mandanti di quell’attacco, ovvero i vertici che hanno ordinato di sparare i colpi di mortaio contro quel fossato.

«C’è stata una rogatoria da parte della procura italiana nei confronti delle autorità ucraine che hanno risposto in un irragionevole tempo», spiega Rocchelli. «Da Kiev hanno inviato un corposissimo dossier nel quale si diceva che era impossibile scoprire e sapere chi sia stato a sparare».

L’unico imputato del processo svolto in Italia è stato Vitaly Markiv, un 29enne con doppia cittadinanza italiana e ucraina, che nel 2019 venne condannato in primo grado a 24 anni di carcere per concorso in omicidio. L’anno dopo venne assolto in appello per vizi di procedura. La procura generale di Milano ha presentato ricorso alla fine del 2021, ma è stato ritenuto inammissibile in Cassazione.

Il caso è stato seguito in prima persona dal ministro degli Interni ucraino Avakov, ma anche dai presidenti Poroshenko e Zelensky che più volte hanno espresso preoccupazione per la detenzione di Markiv. Basti pensare che la sua liberazione è stata una delle motivazioni che hanno spinto Zelensky a incontrare il premier Giuseppe Conte mentre il processo era in corso.

Due anni più tardi, un’inchiesta giornalistica pubblicata su RaiNews24 ha individuato il generale Mychajlo Zabrods’kyj come responsabile di aver dato l’ordine dell’attacco. Ma le autorità ucraine lo hanno sempre difeso, tanto che nel 2019 Zabrods’kyj è stato eletto parlamentare.

L’abbandono del governo

In questa storia c’è un grande assente che non si è mai fatto carico del caso: il governo italiano. «Sono passati più di dieci anni dall’uccisione di nostro figlio a Sloviansk e il governo italiano non ne ha mai chiesto conto a Kiev», racconta il padre al termine della mostra. Pesa sicuramente lo sfondo geopolitico della questione. Il dibattito pubblico sul conflitto ucraino si è incanalato verso posizioni polarizzate.

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Ma una cosa è certa: Rocchelli è sempre stato un fotografo indipendente che aveva il solo obiettivo di raccontare il mondo attraverso le lenti della sua macchina fotografica. Inoltre, ad accompagnarlo in Ucraina c’era un dissidente politico come Mironov: uno passato nei gulag sovietici prima di approdare all’interno dell’associazione Memorial per difendere i diritti umani nella Russia di Gorbaciov e Vladimir Putin.

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