Enrico Malatesta, «bisogna dare dignità all’essere effimero del suono»

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Nella gerarchia dei sensi in vigore in Occidente l’ascolto, come è noto, è subordinato alla vista. Tanti studi, tuttavia, stanno portando alla luce come nella dimensione acustica si giochino battaglie decisive per il diritto d’accesso agli spazi, per l’ecologia e per l’agentività, in un contesto dove l’individuo non è mai isolato ma sempre in relazione con un paesaggio, storico o naturale. La conseguente «etica dell’ascolto» è parte della ricerca di Enrico Malatesta, percussionista classe 1985 di base a Cesena. Dopo un trio elettro-acustico formato in giovane età con Lorenzo Senni e Riccardo Baruzzi, Malatesta ha incontrato le arti performative: ha realizzato le musiche di Caino (2011) e di Ora non hai più paura (2013) di Teatro Valdoca, ha lavorato poi con Chiara Guidi in Fiabe giapponesi (2017) e con molti altri, continuando ad affiancare l’attività di ricerca più prettamente musicale – che esplora anche le potenzialità di materiali inusuali – con quella per la scena. Tra i prossimi appuntamenti che lo vedono protagonista, il debutto della performance Fare polvere realizzata insieme alla danzatrice e coreografa svizzera Yasmine Hugonnet, alla Triennale di Milano il 22 e 23 marzo.

Una delle sue linee di ricerca riguarda il rapporto tra il suono e gli spazi che attraversiamo. Spesso la dimensione dell’ascolto viene trascurata, crede sia necessario un altro approccio a livello sociale?

Decisamente. Quello che cerco di fare è favorire l’ascolto come risorsa progettuale: è uno strano strumento da usare, ma è molto ampio nelle sue possibilità e troppo spesso se ne sottostima il potere, ad esempio rispetto alla pianificazione urbana delle città. È molto difficile produrre delle regole perché l’ascolto è iper-soggettivo e le sue variabili sono molteplici e molto instabili nel tempo; credo anzi che creare regole ne limita decisamente il potenziale. Serve la pratica della poesia. Rispetto ad esempio al tema delle città credo che imparare a «contemplare» e a dare dignità ai fenomeni effimeri come sono i suoni, sentirsi in relazione alla loro presenza e prendersi il tempo (o perderlo) di ascoltare, rispetto a sfruttare in maniera immediata ogni movimento, potrebbe mitigare la bruttezza crescente delle città; una bruttezza che si struttura sempre più sul fatto che consumiamo l’abitabilità degli spazi e siamo talmente veloci nel capitalizzare il nostro spostamento tra essi al punto da farli scomparire sotto i nostri piedi.

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Questa epoca sembra caratterizzata da una tendenza all’insensibilità.

Sì, che a volte sfocia in forme di prevaricazione e di sottile, continuo sopruso acustico. Rispetto al suono la proiezione nel mondo del mio corpo è una postura che cambia continuamente in accordo al comportamento, al livello di energia che pongo nelle azioni e all’utilizzo che faccio dei miei dispositivi. Lo smartphone ad esempio è un dispositivo maneggevole, facile e che tendiamo a dominare anche se gli effetti della sua presenza mi rendono potenzialmente molto ingombrante nel mondo. Sono strumenti potenti ma sembra che possano essere lasciati agire nella sfera acustica delle persone come se i loro effetti fossero trascurabili, mentre non lo sono affatto. Non mi interessa giudicare, i dispositivi tecnologici personali esistono e vengono utilizzati anche per risolvere problemi e per fare cose interessanti e utili. Ma potremmo appunto accettare il fatto che sono estremamente potenti: pensiamo ad esempio all’accesso continuo che le persone oramai hanno rispetto alla possibilità di riprodurre tutti i suoni che li circondano grazie ai microfoni integrati. Credo sia importante provare a osservare meglio come usiamo questi mezzi che tendono sempre più a creare una deviazione del senso dello stare in mezzo agli altri, in un ambiente collettivo e complesso. Quello che provo a fare col mio lavoro è in generale non sottostimare le cose che già usiamo, perché a volte anche un pezzetto di metallo toccato in un certo modo può produrre qualcosa di importante, esprimendo una certa energia e qualità sonora. Proprio questa attenzione alla cura e alla mobilità dell’ascolto mi ha sempre spinto a interessarmi alla danza e in generale a tutto ciò che concerne il corpo.

Perché proprio la danza?

Perché sono sempre stato attratto dall’instabilità e chi lavora con il corpo sa in modo intrinseco che è molto complesso arrivare a delle prestazioni costanti, perché il corpo cambia continuamente rispetto agli spazi, alle superfici, alle ore del giorno, all’umore. Cerco di portare lo stesso tipo di cura nella mia pratica sui materiali, considerandoli come corpi sempre suscettibili a mutamenti. Per questo a volte ho trovato più dialogo con chi lavora nel campo della danza e delle arti performative basando la produzione artistica sull’intuizione e sull’ascolto piuttosto che sulla prestazione. Mi è sempre interessato il dialogo con chi fa ricerca con/su/per il corpo, rispetto al mondo accademico della musica contemporanea, dove il rapporto tra esecutore e strumento prende la forma spesso di una postura definita: l’esecutore sovraintende la macchina per ottenere una prestazione che soddisfa certi requisiti. Non vorrei essere frainteso, questo produce anche cose meravigliose, cose che senza un livello di efficienza simili non sarebbero mai esistite. Io stesso, periodicamente ritorno ad apprezzare un certo tipo di disciplina e di forme ma intimamente la traiettoria che sto descrivendo come persona e artista tende verso altri territori.



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