La televisione non è solo un riflesso della società, ma anche un potente strumento di cambiamento. Questo è il punto di partenza del libro di Lorenza Fruci Donne in onda edito da Rai libri che esplora la rappresentazione delle donne nei primi settant’anni della programmazione Rai, analizzando il modo in cui il piccolo schermo ha contribuito all’evoluzione (o, talvolta, all’involuzione) dell’immaginario femminile. Abbiamo intervistato l’autrice, Lorenza Fruci, giornalista e manager della cultura, ex Assessora del Comune di Roma nella giunta Raggi, per farci raccontare di più.
Intervista a Lorenza Fruci
Il libro esplora la rappresentazione della donna nei primi settant’anni di programmazione Rai. Quali sono stati, secondo lei, i momenti più significativi in cui la televisione ha contribuito realmente a cambiare la percezione del ruolo femminile nella società italiana?
Alla fine degli anni Cinquanta con la storica inchiesta “La donna che lavora”, in cui sono intervistate operaie, braccianti, commesse e le prime hostess di volo, la Rai ha aperto un varco sulla condizione delle donne che stavano entrando nel mondo del lavoro, denunciandone di fatto anche lo sfruttamento.
Spiegaci meglio…
Negli Anni Settanta con l’inchiesta di Virgilio Sabel “la questione femminile” nell’ambito di “Sapere” e con “Si dice donna”, l’unico programma con una redazione composta da femministe, la Rai ha portato i temi delle battaglie femminili e femministe in tv.
Ma soprattutto con “Processo per stupro” nel 1979 la Rai ha colpito l’opinione pubblica mostrando per la prima volta come nei processi le donne violentate venissero colpevolizzate, evidenziando la necessità di riconoscere la violenza come reato contro la persona e non più contro la morale.
Nei decenni successivi il fenomeno della violenza è stato riproposto da “Amore criminale”, ancora oggi in onda.
Nel libro emerge come la televisione abbia spesso oscillato tra la riproduzione di stereotipi e la promozione di modelli emancipati. Come ha scelto i programmi da analizzare per raccontare questa evoluzione? C’è stato un criterio specifico nella selezione?
Sì, il criterio di selezione è stato seguire l’evoluzione delle leggi per i diritti delle donne. I programmi che le ho citato corrispondono a momenti storici in cui la politica, e spesso le battaglie delle donne, hanno portato a nuove conquiste.
Per esempio, “La donna che lavora” del 1959 è la risposta televisiva all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro: è del 1950 l’importante legge sulla tutela delle lavoratrici madri.
I programmi degli Anni Settanta sono invece il riflesso del movimento di Liberazione della Donna e delle battaglie femministe con tutte le loro conquiste, come la Riforma del diritto di famiglia nel 1975 e l’aborto nel 1978.
E ancora “Amore criminale” è una risposta del servizio pubblico televisivo al tema della violenza di genere, la cui prima fondamentale legge è del 1996, e lo scopo della trasmissione è sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento. Il percorso nel mio libro, e quindi la selezione dei programmi, segue questo fil-rouge.
L’inchiesta televisiva “La donna che lavora” del 1959 è uno degli esempi più emblematici del rapporto tra televisione e questione femminile. Quanto è cambiata, secondo lei, la narrazione del lavoro femminile in tv rispetto a quel periodo?
Ritengo che manchino delle inchieste che si occupino dello specifico del lavoro, quando invece ce ne sarebbe bisogno, visto che la questione femminile su questo argomento pone ancora delle problematiche irrisolte, dal divario salariale ai congedi parentali, alle molestie fino all’intramontabile soffitto di cristallo. Inoltre c’è il tema della leadership femminile che propone un diverso modo di gestire il potere, un modello di cui le donne hanno contezza ma che la società non è pronta a riconoscere e a decodificare. Imperano ancora i modelli maschili e sarebbe interessante indagare in tv proprio questo nuovo modello femminile.
Nel libro sottolinea come la tv non sia solo uno specchio della società, ma anche un motore di cambiamento. Alla luce di ciò, pensa che la televisione di oggi stia ancora contribuendo a ridefinire l’immaginario femminile o si è fermata in qualche modo?
Oggi la presenza delle donne in tv – tv intesa come intero sistema televisivo e non solo come Rai – restituisce un’immagine della donna molteplice e sfaccettata. Il giornalismo è forse il settore in cui le donne riescono a far emergere le loro capacità e i loro talenti al meglio. Le fiction, le serie e i documentari stanno risarcendo le donne dall’oblio in cui la storia le aveva relegate. L’intrattenimento è invece dove si potrebbe fare di più; se pensiamo a Sanremo, l’evento mediatico di maggior impatto economico nell’industria dello spettacolo, i ruoli di maggiore potere, come la direzione artistica, e di maggiore visibilità, come la conduzione, sono ancora appannaggio maschile, esattamente come i ruoli apicali nella società, dove purtroppo fa ancora notizia che una donna raggiunga un vertice.
Il suo approccio di ricerca unisce documenti storici, testimonianze e analisi critica. Come ha affrontato la metodologia di indagine per tracciare un quadro così ampio e articolato della rappresentazione femminile in Rai?
Ho voluto dare al libro un taglio volutamente storico. Ho consultato documenti ufficiali, ho recuperato interviste e articoli del Radiocorriere tv, ho raccolto testimonianze dell’epoca, materiali che in parte ho voluto riportare nel libro. Nell’introduzione dichiaro che è stata una vera e propria scelta, lasciando che fossero i fatti e le fonti a parlare al lettore, per permettergli di avere gli strumenti per interpretare il rapporto tra l’evoluzione o involuzione della condizione della donna e la tv, e dare una propria lettura che andasse oltre la mia.
Nel libro sottolinea come ogni “marea” di emancipazione femminile abbia portato con sé un avanzamento per l’intera società. Guardando al futuro, quali sono secondo lei le sfide principali che i media devono affrontare per continuare a promuovere modelli inclusivi e non stereotipati?
Parlando nello specifico della tv pubblica, la Rai ha un archivio di 70 anni di programmi che sono parte della nostra storia. Continuerei a valorizzare quello, come un vero e proprio libro di storia, per permettere alle nuove generazioni di “vedere”, ben prima di capire, come e quanto è cambiata la nostra società. Le immagini sono più potenti e immediate delle parole e arrivano più facilmente ai giovani. Senza storia e memoria non c’è futuro e i ragazzi hanno bisogno di con0scere il passato, per ricordarlo e non darlo per scontato, ma soprattutto per comprendere il presente. Rai Teche, Rai Storia e RaiPlay in questo senso stanno facendo vero servizio pubblico.
Dario Moalli
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