CINEMA – Holding Liat, la famiglia di un ostaggio specchio dell’anima

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Premiato con il prestigioso Berlinale Documentary Award, riconoscimento che testimonia l’impatto dell’opera nel panorama cinematografico internazionale, Holding Liat è un documentario che lascia il segno. Diretto da Brandon Kremer e presentato in anteprima mondiale alla 75ª Berlinale lo scorso febbraio, è il racconto delle settimane di angoscia trascorse dalla famiglia di Liat Beinin Atzili, rapita il 7 ottobre 2023 durante il massacro commesso da Hamas. Madre, padre, sorella e uno dei figli di Liat e Aviv – anch’egli rapito insieme alla moglie – hanno posizioni molto diverse, discutono e si scontrano pur nel dolore condiviso della situazione. Seguirli lungo la loro vicenda non è facile: ogni opinione trova sullo schermo il suo campione, e allo stesso tempo viene messa in discussione. Oltre al Documentary Award, il film di Kremer ha vinto anche il premio della Giuria ecumenica per la sezione Forum, e il componente della giuria Peter Ciaccio – pastore della chiesa valdese e metodista di Trieste – ha ricordato la motivazione della scelta fatta: «Senza conoscere l’esito della crisi degli ostaggi, i registi hanno iniziato una cronaca rispettosa e concentrata di una famiglia in preda all’angoscia. Questo documentario mostra esattamente ciò di cui il nostro tempo ha così disperatamente bisogno: la volontà di avere conversazioni differenziate e di sopportare complessità e controversie, senza interrompere la discussione». Alla fine di ogni proiezione, racconta a Pagine Ebraiche il regista, ci sono state domande e reazioni di segno molto diverso. Ogni volta qualcuno si è presentato ringraziando per essere stato obbligato a mettere in discussione i propri preconcetti. E aggiunge: «Mi rendo conto che ognuno può trovare in questo film qualcosa di difficile, fastidioso, e che ogni posizione su quanto succede laggiù qui viene ridiscussa. Ma io resto convinto che stia a noi cercare di non giudicare, fare un passo in dietro, ascoltare. Soprattutto ascoltare».E all’ascolto di sono messi Brandon e Lance Kremer, che grazie al rapporto di parentela a pochi giorni dal rapimento di Liat hanno iniziato a filmare quello che stava succedendo in famiglia. Tra telefonate ufficiali che davano notizie, discussioni su cosa fare, se fare qualcosa era possibile, e scene di vita quotidiana sullo schermo trascorrono le settimane. Kramer, ritirando il premio, ha raccontato che certamente non si tratta di un film che aveva sperato di fare: «Dopo che Liat e Aviv Atzili, sono stati rapiti il 7 ottobre, mio fratello Lance e io abbiamo sentito la responsabilità di prendere in mano la telecamera e documentare l’esperienza unica che la famiglia stava vivendo. Abbiamo assistito da vicino a cosa succede in una famiglia che dibatte su come riuscire a riavere i propri cari e allo stesso tempo mantenere i propri valori e anche cercare un futuro più pacifico per israeliani e palestinesi. E in un momento complicato in cui tutto è polarizzato, raccontare differenze, e capacità di empatia ci è sembrato universale e urgente da condividere». Kramer ha anche ribadito che i documentari possono aiutare a ritrovare l’umanità dell’altro, con la speranza che il linguaggio condiviso del cinema possa contribuire alla pace. Racconta ancora Ciaccio: «Mi è stato chiesto come mai proprio una giuria “religiosa” abbia premiato un film che parla così male della religione. E in effetti Yehuda Beinin, da ebreo laico e socialista, non lesina dure critiche agli “uomini di Dio” in politica, colpevoli a suo dire di fomentare il conflitto. Ma questo mi permette di rilevare un punto di discussione importante: le religioni come le persone religiose e come le istituzioni religiose non hanno una buona reputazione in questo momento. Vale un po’ per tutte le religioni, nessuna esclusa. Ignorare la critica alla religione come parte del problema, critica emersa in molti film visti alla Berlinale, non è salutare per chi porta avanti un progetto di fede diverso. Certo, alcuni film ci hanno mostrato l’orrore inconsapevole di società fondate sull’assenza di Dio, ma, come insegna la famiglia di Liat, la costruzione di un mondo migliore deve partire da noi». Non stupisce forse che in questo momento a vincere l’Orso d’Oro quale miglior documentario del Festival sia stata proprio la vicenda della 49enne Liat madre di tre figli di 22, 20 e 18 anni, che nelle scene finali del film torna al suo ruolo di docente di storia e guida allo Yad Vashem. Liat è tornata ai suoi cari a novembre 2023, per ricevere insieme alla sua famiglia la notizia, poche ore dopo, che invece Aviv era stato subito assassinato. E ciononostante, nelle ultime scene del film, dopo averne celebrato il funerale, riesce a ricordare ai suoi studenti, in visita allo Yad Vashem, che è sempre necessario guardare a cosa succede al di là del muro. Una scena contestata, che alcuni hanno trovato grave, strumentalizzabile, a rischio di fraintendimenti per il possibile confronto tra la situazione a Gaza e quanto successo durante la Shoah. Ma Brandon Kremer è irremovibile: «Sì, è una reazione che si è ripetuta. Ma allo stesso tempo dopo ogni proiezione c’è stato qualcuno che, dichiarando la propria provenienza dall’ambiente dell’attivismo pro palestinese è venuto a ringraziarmi perché per la prima volta ha visto la vicenda dall’altra parte. Allora io mi sento di ribadire che dobbiamo tutti provare a fare un passo indietro e guardare a cercare di lasciar andare almeno i preconcetti. Non possiamo fare altro».

a.t.
(Foto – Meridian Hill Pictures 2025)

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