Inghiottiti da Mosca, i prigionieri di guerra ucraini tornano dai centri di detenzione russa e parlano di torture indicibili

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L’Ucraina lavora per il ritorno dei soldati catturati, ha la mappa dei campi di detenzione sul territorio della Russia che invece per riavere indietro i suoi fa poco. Racconto degli scambi di prigionieri dal centro di Kyiv che li negozia da tre anni


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“È stato inghiottito, da quattro mesi non so nulla di lui”, Vika regge una bandiera con il numero della brigata in cui combatteva suo marito, la brigata di fanteria motorizzata di Mariupol numero 56. Sotto la bandiera, ha il telefono che sblocca in continuazione, serve a mostrare il volto di Ilja che sorride indicando un cuore con i colori dell’Ucraina appuntato sul giubbotto antiproiettile. Ilja è stato inghiottito nel Donetsk, l’ultima volta il suo cellulare è stato rilevato nell’oblast di Luhansk.

 

Davanti al Centro di coordinamento per i prigionieri di guerra c’è sempre una lunga fila di donne di ogni età. Cercano notizie dei soldati scomparsi

 

Vika è arrivata a Kyiv da Zaporizhzhia e dopo nove ore di treno si è appostata davanti al Centro di coordinamento per i prigionieri di guerra con una sua amica, anche lei moglie di un soldato. Sono giovanissime, truccatissime, bellissime. Tra le bandiere e i volti con l’elmetto che spuntano dalle foto, sono due delle tante donne che fanno la fila per sapere cosa ne è stato dei loro mariti, figli, fratelli caduti nelle mani dell’esercito russo. Il tormento di Vika è iniziato da quattro mesi, quello di altre signore di ogni età va avanti anche da tre anni. E’ un tormento lungo quanto l’invasione. A. ha addirittura ricevuto una telefonata: “Mamma sto bene, ma sono gli ucraini che non mi vogliono, fa’ qualcosa. Ti richiamo presto”. La chiamata non è mai più arrivata. Anche il figlio di A. è stato inghiottito e mentre al telefono lei gli sentiva dire che i russi lo trattavano bene ed era soltanto colpa di Kyiv se non tornava a casa, “non gli ho creduto. Gli hanno permesso di chiamarmi solo per mentirmi. Anche la menzogna è una tortura”. La lunga fila delle donne in attesa conduce alla porta del Centro di coordinamento per i prigionieri di guerra, il quartier generale da cui vengono negoziati gli scambi di soldati con il nemico. Finora sono stati sessantuno, negoziati a ritmi diversi e ognuno con un numero di prigionieri liberati che variava a seconda del periodo. I primi scambi avvenivano lungo il confine orientale, con un cessate il fuoco, per due volte violato da Mosca, di un paio d’ore, quanto basta per procedere a far passare i prigionieri da una parte all’altra. Poi la procedura è stata spostata in Bielorussia, un confine più sicuro. 

  
Il Centro è stato aperto nel 2022, quando dall’inizio dell’invasione Kyiv si è resa conto che il fenomeno degli scambi sarebbe aumentato, quindi era necessario creare un unico organo di collegamento che unisse le forze della Guardia di frontiera, della Guardia nazionale e dei servizi di sicurezza interno e militare, l’Sbu e il Gur. “La data di nascita del Centro è l’11 marzo – dice al Foglio Petro Jatsenko, scrittore convertito alla vita militare con l’inizio dell’invasione – c’era un solo computer, un tavolo e fuori già una fila lunghissima di famiglie. Nell’estate del 2022 abbiamo creato lo stesso centro in altre regioni. Ci occupiamo di parlare con le famiglie e soprattutto di portare avanti i negoziati per gli scambi”. La regola è: più scambi possibili nel tempo più breve possibile. I negoziati però si fanno in due e dall’altra parte, in Russia, la voglia di trattare non è altrettanto forte. Se c’è un argomento che Kyiv e Mosca non hanno smesso di discutere è proprio quello dei prigionieri di guerra: gli scambi sono stati l’unico canale rimasto aperto, ma a singhiozzo. Kyiv ha creato una struttura apposita per la mediazione e i negoziati, mentre per Mosca i colloqui sono estemporanei: non c’è un centro di coordinamento e non c’è una squadra negoziale. La maggior parte dei colloqui si svolge tra russi e ucraini, occasionalmente aiutati da paesi terzi, in modo particolare dagli Emirati Arabi Uniti, “bravi facilitatori, con buone connessioni sia con noi sia con i russi”. 

  

Mosca ha 180 campi di detenzione in tutta la Federazione, nella Repubblica di Mordovia si trova uno dei più duri. “L’ordine di torturare viene dall’alto”

 
Gli ucraini portati in salvo fuori dai campi di detenzione russi sono stati finora 4.131, di questi centosettanta sono civili, “le famiglie fanno pressione, la società fa pressione. Noi abbiamo creato una struttura che cerca di essere efficiente, ma il problema è che Mosca spesso non è interessata agli scambi”. Jatsenko non rivela quanti sono in tutto i soldati russi nelle mani dell’esercito ucraino, ma se all’inizio dell’invasione, Kyiv aveva un solo campo di detenzione per prigionieri di guerra nella regione di Leopoli, nel 2023, dopo che Mosca aveva bloccato gli scambi e l’Ucraina continuava a prendere prigionieri, “ne abbiamo aperti altri quattro: sono di nuovo pieni”.  La trafila è sempre la stessa: i soldati russi vengono catturati al fronte, alcuni conoscono dei codici da usare con i droni: se mostrano un foglio o un pezzo di stoffa bianco, il drone gli indica la strada per mettersi in salvo. I soldati catturati vengono prima condotti nelle città più grandi dell’Ucraina dove vengono interrogati, poi trasferiti nei campi di detenzione per prigionieri di guerra. Dall’altra parte del confine, in Russia, i campi di detenzione sono oltre centottanta, dispersi per tutto il territorio della Federazione. Alcuni si trovano vicino all’Ucraina, nelle regioni di Rostov o di Voronezh, altri sono in Siberia, e questa dislocazione crea dei problemi nel momento degli scambi perché spostare i prigionieri attraverso un territorio tanto vasto complica e rallenta la procedura. Nessun campo di detenzione russo è stato creato appositamente per i prigionieri di guerra: sono posti per detenuti comuni in cui però, racconta Jatsenko, i soldati e i civili ucraini vengono sottoposti a un trattamento efferato “e l’ordine parte dalle autorità”.

 

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Chi è tornato dai campi di prigionia in Russia racconta poco, parla di torture, di posti peggiori di altri, ma c’è il non detto, il non ammesso che emergerà in futuro: le violenze sessuali, la castrazione, la privazione di tutto. “Civili e militari soffrono allo stesso modo, per i russi spesso anche i civili sono combattenti: basta un passato nella polizia per essere etichettato come soldato. Negli scambi quindi pretendono di trattarli come militari e anche durante la detenzione patiscono lo stesso trattamento, tornano denutriti, con i segni delle torture esattamente come i soldati. Un militare ci ha raccontato che i russi danno un tempo prestabilito per i pasti: due minuti per la colazione, tre per il pranzo, due per la cena. In questo lasso di tempo il detenuto deve prendere il rancio, mangiarlo e riportare il piatto. Spesso il cibo è bollente e la tortura sta nello scegliere tra l’ustione e la fame, tra mandare giù il cibo ancora caldo o non toccarlo. Anche la doccia spesso è associata alla tortura: i detenuti vengono mandati a lavarsi e poi sentono avvicinarsi i carcerieri con i taser per le scariche elettriche. Dopo un po’, il solo sentire il rumore, crea delle contrazioni muscolari che danneggiano per sempre la struttura fisica”.

 

Mosca sfrutta i prigionieri di guerra per creare disordine in Ucraina con telefonate alle famiglie per dire: qui ci trattano bene, è Kyiv che non ci vuole

 

L’elenco delle torture è lungo, è soltanto l’inizio di una lista di racconti, tanti dei quali ancora sepolti, che inizieranno a emergere tra molto tempo, ma che già arrivano alle famiglie di chi aspetta un segnale di vita, di sopravvivenza da oltre il confine. “Io sono stata uccisa nel campo di detenzione in Russia”, ha detto una prigioniera liberata, era stata catturata assieme al reggimento Azov. Più iniziano a formarsi i racconti dalla detenzione, più Kyiv ha fretta, sa per certo che l’ordine di torturare gli ucraini viene dall’alto, ma non ha leve da sfruttare per evitare che queste torture avvengano: “Dovrebbe farlo la Croce Rossa che visita i prigionieri, ma spesso non riesce, teme di perdere l’accesso limitato che ha per visitare alcuni detenuti. Questo però non è un atteggiamento proattivo”. Kyiv si trova spesso sotto minaccia, anche il fatto che Mosca tratti militari e non allo stesso modo e pretenda, per liberare i civili, di riavere indietro i suoi soldati, è un atteggiamento negoziale difficile da governare: “Se iniziamo a scambiare i civili con i militari russi che abbiamo nei nostri campi di detenzione, allora metteremo in pericolo tutti gli ucraini che vivono nei territori occupati: per Mosca basterà arrestare chiunque per pretendere indietro i suoi soldati, lasciando i nostri in detenzione. Non è semplice trovare il modo di riavere i civili senza mettere in pericolo la vita di altri ucraini”.

 
Oltre alle minacce, da governare nei negoziati con Mosca c’è anche il vuoto, il buco nero delle informazioni. Le donne fuori dal Centro vogliono sapere, vogliono una storia, una verità. Sanno la data della scomparsa, vorrebbero avere quella del rilascio o di morte: vogliono un dato, un numero, una collocazione geografica, invece a Kyiv non arrivano informazioni di alcun genere da parte di Mosca, e con le poche informazioni raccolte, il Centro ha creato un database in cui divide i prigionieri dai dispersi. I nomi dei prigionieri li ha ricevuti o da soldati liberati in scambi già avvenuti o dalla Croce Rossa. I dispersi vengono trattati come possibili prigionieri di guerra, fino a quando non c’è un dato, e si cerca di includerli nelle trattative. La storia degli scambi di prigionieri in tre anni è stata altalenante. Ogni scambio ha avuto i suoi tempi, le sue richieste, ogni volta Kyiv si è dovuta adattare o imporre a una nuova linea di Mosca: “Ogni scambio è unico, la negoziazione più breve è stata di due settimane ed è accaduta lo scorso anno, dopo l’inizio dell’operazione Kursk. A quel punto la Russia era disposta a negoziare più in fretta perché avevamo fatto prigionieri diversi coscritti, per i quali da parte della società russa c’è molta pressione. Quindi l’esercito deve dimostrare di essere in grado di liberarli”. Non si comporta allo stesso modo con altri soldati, per esempio con i detenuti mandati a combattere con la promessa di estinguere la pena: “Di loro Mosca non vuole sapere nulla, non è interessata e non li rivuole indietro”. Lo stesso principio vale per i mercenari: cubani, malesi e anche nordcoreani, che Mosca tratta come qualsiasi altra categoria di mercenari anche se la loro partecipazione alla guerra è inquadrata in un accordo con il dittatore Kim Yong Un. “Il problema è che non soltanto non li rivuole la Russia, ma neppure i paesi di origine li vogliono. Sono nei nostri campi, li nutriamo, li curiamo e non sappiamo come mandarli via. Un cubano ci ha detto di essere partito per soldi e le condizioni del campo di detenzione in Ucraina con tre pasti al giorno gli piacciono molto”. La negoziazione più lunga tra Mosca e Kyiv è stata nel 2023: è iniziata il 7 agosto e ha portato a uno scambio il 3 gennaio dell’anno seguente, cinque mesi per uno degli scambi più grandi, che tuttavia non ha battuto il più massiccio di tutti che ha avuto luogo nel 2024 e ha portato alla liberazione di oltre duecento prigionieri. “Noi siamo pronti a scambiare tutti per tutti, lo faremmo subito. Mosca non ne ha intenzione”.

 

Il Cremlino è più incline a negoziare quando subisce la pressione sul campo di battaglia. Si preoccupa dei suoi se sono coscritti

 

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La Russia è più incline a negoziare quando si trova in difficoltà sul campo di battaglia, la pressione la fa smuovere. Nel 2022, dopo le grandi controffensive ucraine nelle regioni di Kharkiv e di Kherson, gli scambi erano più frequenti. Quando invece Mosca domina in battaglia, usa i prigionieri di guerra per creare tensione nella società ucraina. Le famiglie ricevono chiamate e video in cui i soldati accusano Kyiv di non voler portare avanti gli scambi e quindi chiedono di compiere atti di sabotaggio: protestare, bruciare mezzi militari. Altre volte le famiglie vengono contattate con l’offerta di ricevere chiamate o immagini dei prigionieri in cambio di informazioni sensibili sull’esercito. “La guerra psicologica è un elemento persistente che però in tre anni non è riuscito a creare rivolte dentro alla società ucraina. Se si confronta con il contesto in medio oriente, l’uso che Mosca fa dei prigionieri per creare tensioni tra ucraini e governo è molto simile al metodo di Hamas con gli ostaggi israeliani”. Sulle famiglie resta il peso della consapevolezza che chi entra in un campo di prigionia russo ne uscirà distrutto, devastato o senza vita. Nella mappa dei campi di detenzione in Russia, Kyiv è in grado di tracciare quelli in cui i soldati vengono sottoposti a trattamenti più efferati di altri: nella repubblica di Mordovia, nella parte occidentale della Russia, c’è un campo che è riconosciuto come uno dei più pericolosi, con torture quotidiane, prigionieri costretti a stare in piedi per diciotto ore e se cadono la punizione è collettiva – “per chi è stato sottoposto a questa tortura, a volte è necessaria l’amputazione” – violenze sessuali, elettroshock continui. Lo stesso avviene nel campo di Taganrog, nella regione di Rostov, dove si pensa siano passati almeno cinquecento ucraini. In alcune strutture vige la “procedura di invito”, un rito di ingresso da cui spesso non si esce vivi: “Appena gli ucraini arrivano, sono costretti a passare attraverso un corridoio ai cui lati sono disposti settanta soldati russi armati di mazze di ogni materiale. Gli ucraini passano e loro picchiano, accanendosi contro chi cade per terra”. Nei campi di detenzione si deve parlare russo anche tra prigionieri, a volte l’accento ucraino che esce mentre un soldato è costretto a cantare una canzone patriottica di Mosca o a recitare una poesia diventa motivo di ripercussioni per tutta la cella.

 
Mosca rivuole indietro i coscritti, i piloti, è stata disposta a negoziare anche per il politico ucraino filorusso Viktor Medvedchuk, per il quale ha liberato centocinquanta soldati. Non si muove per gli ex detenuti e a volte neppure per i militari semplici: “Un russo è da noi dall’inizio dell’invasione, viene da Saratov e comandava una piccola unità di otto uomini. I suoi sottoposti sono stati liberati tutti, ma lui, Mosca non lo include negli scambi. Lui vuole tornare, ma non c’è nulla da fare. Gli abbiamo chiesto cosa sapeva dell’Ucraina prima della guerra e lui ha risposto che aveva dei vicini di casa ucraini e aveva sentito parlare dell’Ucraina in qualche film sovietico”, si è lanciato in una guerra contro una terra confinante e per lui sconosciuta e adesso non trova la via di casa. Kyiv, Zaporizhzhia, Odessa, Kharkiv, Leopoli, per tutta l’Ucraina le manifestazioni per chiedere la liberazione dei prigionieri di guerra sono quasi quotidiane. In ogni città c’è una scritta “Free Azovstal”, che si riferisce ai difensori di Mariupol, ma è ormai una sineddoche: si parla del reggimento Azov per riferirsi a ogni soldato ucraino in prigionia. Mosca non è riuscita a usare i militari catturati per istigare ribellioni contro il governo o l’esercito, ma la storia degli inghiottiti nella guerra, degli scomparsi nella mappa immensa dei centri di detenzione di Mosca, una costellazione della tortura fisica e mentale, è un chiodo fisso, un lamento che ammette poca speranza per le famiglie che aspettano. Molti si consolano guardando i soldati che tornano: i corpi smunti, gli sguardi che mostrano tutto il trauma, i visi scavanti. Senza capelli, senza speranze, solo ricordi violenti. Sono talmente irriconoscibili che potrebbero essere chiunque.





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