Il calo della produzione industriale è in corso da tempo e coinvolge vari Paesi europei; il nostro più di altri. È importante quindi porre molta attenzione su questo fattore perché dall’andamento dell’industria dipende circa un quinto di tutto il prodotto nazionale lordo (PIL), ponendosi come il dato che indica la dimensione dell’economia nazionale e quindi ci permette di sentire il polso del Paese.
Basta scorrere l’annuale nota redatta dall’ISTAT, per capire che l’Italia ha imboccato ad una velocità inaspettata una strada in discesa caratterizzata da una negatività produttiva per ogni mese dell’anno 2024, prolungando questo trend almeno fino a questi primi mesi del 2025. Sinteticamente la nota dell’Istituto di ricerche statistiche dice che «il 2024 si chiude con una diminuzione della produzione industriale del 3,5% […]a dicembre 2024 si registra una crescita esclusivamente per l’energia (+5,5%); al contrario, marcate diminuzioni contraddistinguono i beni strumentali (-10,7%), i beni intermedi (-9,5%) e i beni di consumo (-7,3%) […]. Gli unici settori di attività economica che registrano a dicembre incrementi tendenziali sono l’attività estrattiva (+17,4%) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+5,0%). Flessioni particolarmente marcate si rilevano, invece, nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-23,6%), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3%) e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-14,6%)» [1].
Sono indubbiamente dati allarmanti in parte spiegabili, ma non mitigati, dalla crescita dei prezzi dell’energia che rendono molto costose le produzioni delle industrie più energivore, ma va tenuto comunque conto dell’ulteriore fattore che pone l’Italia in una situazione di alto rischio e cioè che la decrescita industriale è maggiore della media degli altri Paesi europei dove, forse, peggio di noi sta facendo solo la Germania. Va poi posta molta attenzione proprio sul documento dell’ISTAT perché dedica maggiore spazio ai dati della produzione del dicembre 2024. Ebbene il mese preso in considerazione rappresenta senza dubbio forse lo stato di non ritorno ad una economia accettabile. Viene infatti osservato che quello di dicembre è «l’ennesimo calo, per il 23esimo mese consecutivo. La produzione a dicembre è scesa del 7,1% rispetto a un anno prima: per trovare un dato peggiore di questo bisogna tornare al periodo del Covid. In generale, dopo la pandemia l’industria in Italia ha avuto un ripresa immediata a cui però è seguito un lungo declino. Dopo il -11,4% dell’anno del Covid, nel 2021 era arrivato un +11,8%. Poi però qualcosa si è fermato. Nel 2022 si è registrato appena un +0,3%, e nel corso dell’anno successivo è iniziata la discesa che continua tuttora e non sembra rallentare» [2].
Come noto, i dati assumono maggiore rilevanza – consegnandoci un quadro globale molto aderente alla realtà – se posti a confronto con altri parametri o indici di ricerca. In questo specifico settore, quello industriale, riveste notevole rilevanza il c.d. Indice PMI, dove PMI è l’acronimo di «Purchasing Managers Index», cioè un indicatore economico i cui risultati vengono emessi sulla base dei dati raccolti tramite relazioni preparate dai responsabili aziendali che acquistano i materiali destinati poi alla produzione industriale. Molto semplicemente, se il fabbisogno di materiali aumenta, vuol dire che le prospettive di produzione sono buone; se avviene il contrario, vuol dire che le stime per la produzione futura sono in calo, così come anche le prospettive per l’economia. Per convenzione, se tale indice è sopra 50 l’economia si prevede in espansione; se è sotto tale soglia, le prospettive sono di recessione. Ad esempio, «per il settore manifatturiero l’indice è sotto la soglia dei 50 punti da tempo, tranne una crescita improvvisa dello scorso marzo a 53 punti: ad agosto è stato pari a 49,4, in costante aumento da maggio. Significa che le prospettive sono in miglioramento, sebbene la situazione resti ancora negativa» [3].
Sulla scorta di questi criteri di valutazione, i due settori più in crisi sono quello dell’industria automobilistica e quello del tessile e della moda. La produzione di auto è scesa del 43% circa, facendo registrare questo dato negativo toccato solo prima del c.d. «boom economico» dei primi anni ’60 del Novecento. È indubbio che la nota crisi del Gruppo Stellantis, che a dicembre ha registrato del dimissioni dell’ad Tavares, abbia fatto scendere il livello della produzione, portando molti dipendenti in Cassa integrazione.
La crisi dell’auto, forse più di ogni altro settore produttivo, è anche legata alla debole situazione economica della Germania il cui progressivo rallentamento ha prodotto una drastica riduzione degli acquisti dei prodotti del nostro indotto, un settore nel quale sono coinvolte non meno di 2.000 imprese con fatturati prossimi ai 60 miliardi di euro. Ma anche il quadro nazionale, per il perdurare della crisi dell’industria, sta lentamente evolvendo verso un inaridimento della domanda interna «con la spesa degli italiani che non riparte ed effetti negativi diretti su commercio e industria e sui conti nazionali. Per questo continuiamo a chiedere al governo di intervenire per invertire la rotta adottando misure davvero efficaci sul fronte della nostra economia» [4].
L’altro settore in difficoltà è il tessile che ha registrato un calo della produzione del 18%, e la spia di questa crisi è data dalle difficoltà del distretto tessile più grande d’Europa, Prato. La crisi in corso riguarda sia la moda di lusso che marchi meno costosi, e oltre che al settore industriale sta creando molti problemi anche a quel che è rimasto di quello artigianale, che è in crisi ormai dall’inizio degli anni Duemila. Le cause, indubbiamente, hanno a che fare col calo delle esportazioni dovuto alle guerre in corso, ma anche con un cambio delle abitudini di chi compra. Prato, in breve, diventa la cartina di tornasole del comparto tessile, dove la crisi è frutto di una concomitanza di circostanze, da quelle economiche a quelle politiche fino a quelle culturali.
Come precisa il giornalista ed esperto di moda Antonio Mancinelli «l’incertezza economica fa sì che chi può ancora spendere dei soldi in abbigliamento prediliga prodotti più duraturi, come i gioielli d’oro o d’argento, oppure gli accessori, che durano di più dei vestiti e passano più difficilmente di moda» [5].
Stiamo vivendo insomma una crisi senza fine, dove la politica sembra si sia ritratta per non dover o saper prendere decisioni, anche di fronte all’ultima proiezione di Bankitalia condotta alla fine di dicembre dove, sulle aspettative di crescita delle imprese con minimo 50 dipendenti, emerge «che i giudizi sulla situazione economica generale sono peggiorati. La percentuale di aziende che ha espresso valutazioni negative è salita al 30%, da 21% nell’indagine precedente. Nelle valutazioni delle imprese la domanda si è indebolita, in particolare quella estera e quella rivolta al comparto dei servizi. Le prospettive sulle proprie condizioni operative a breve termine sono complessivamente sfavorevoli» [6].
Dall’opposizione partono segnali di accusa nei confronti del governo, e se M5S chiede apertamente le dimissioni del ministro delle Imprese Adolfo Urso, il PD attacca a testa bassa con Antonio Misiani, responsabile Economia e Finanze del partito: «di fronte a questa Caporetto, qualunque governo degno di questo nome correrebbe ai ripari. Il nostro, non ci pensa neanche lontanamente. Meloni e i suoi ministri usano il Green Deal europeo come capro espiatorio ma di fatto stanno abbandonando l’industria italiana al proprio destino»[7].
Anche il più grande sindacato italiano, la CGIL, parla apertamente di «disastro» e lo fa con il suo Segretario confederale Pino Gesmundo: «La produzione industriale continua a calare da febbraio 2023, è la 23esima volta, ma il Governo persevera nel raccontare successi che, semplicemente, non esistono, non sono reali» [8].
Riprendendo la dettagliata relazione già citata della Banca d’Italia Indagine sulle aspettative di inflazione e crescita, si trovano altri elementi che qualificano lo stato delle aziende. Nella pagina introduttiva si legge che «le prospettive [delle aziende, ndr] sulle proprie condizioni operative a breve termine sono complessivamente sfavorevoli […]. La maggior parte delle imprese prevede di mantenere invariata la propria forza lavoro» [9]. Se gli imprenditori sono in sofferenza per i motivi ben noti, come possono prevedere di mantenere occupate le proprie maestranze? Semplificando nell’interpretare questo quasi anomalo stato di cose, si potrebbe dire che l’occupazione è quanto meno stabile ma l’economia non cresce. E questo non è un buon segnale, perché dobbiamo chiederci di che natura può essere quell’economia in cui si creano o si mantengono posti di lavoro ma non si crea più ricchezza e benessere. A fornirci gli elementi per comprendere il fenomeno è il Centro REF Ricerche che, analizzando i dati Istat, ci consegna un quadro a dir poco anomalo dove risulta che sono le «imprese che hanno bloccato il turn over, cercando di tenere gli attuali dipendenti anche a costo di sottoimpiegarli, e al tempo stesso hanno assunto nuove figure professionali, più giovani e legate alle nuove mansioni frutto della digitalizzazione. Il tutto è avvenuto però non in una fase di espansione ma di crisi, con la produzione industriale, che non cresce più da quasi due anni» [10]. E allora perché le aziende adottano questo comportamento? Le ragioni sono molteplici e fra queste spicca l’attenzione al problema del calo demografico, in ottica, ovviamente, di disponibilità della forza lavoro. Con il calo costante della natalità, si teme in prospettiva l’assenza di maestranze perché quelli che escono per raggiunti limiti d’età, sono più di quelli che posso essere assunti. Questo è un problema non da poco perché in condizioni normali, con una produzione industriale che non cresce, le imprese avrebbero ridotto l’occupazione. Quindi le aziende, o almeno alcune di loro, nella speranza che la produzione industriale riprenda, fanno di tutto per mantenere almeno il personale alle loro dipendenze.
In Italia il governo Meloni con la c.d. Transizione 5.0 ha messo in campo per il biennio 2024-2025, 12,7 miliardi di euro. Il piano si inserisce nella strategia finalizzata a sostenere il processo di trasformazione energetico e digitale delle imprese. Fermo restando che si tratta di transizioni che poco hanno a che fare con la sostenibilità, finora queste misure non hanno dato i risultati sperati perché molto macchinose ma hanno fornito nuovo ossigeno alla maggioranza per raccontare come l’occupazione continui ad aumentare, rivendicando la paternità del successo, dimenticando di ricordare però che la domanda interna è prossima allo zero e che gli investimenti sono pressoché inesistenti. La realtà purtroppo è che le industrie italiane sono ferme da due anni e il governo brancola nel buio più totale.
Stefano Ferrarese
[1] https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/02/Testo-integrale-e-nota-metodologica.pdf, 24 febbraio 2025
[2] Luca Pons, https://www.fanpage.it/politica/la-produzione-industriale-in-italia-e-in-calo-da-due-anni-come-si-spiega-la-crisi/, 13 febbraio 2025
[3] https://www.ilpost.it/2024/09/11/produzione-industriale-italia-2024/?utm_source=ilpost&utm_medium=leggi_anche&utm_campaign=leggi_anche, 11 settembre 2024
[4] https://codacons.it/produzione-industriale-codacons-prosegue-crisi-industria-e-22-calo-tendenziale-consecutivo/, 14 gennaio 2025
[5] https://leafitalia.it/news/la-crisi-del-distretto-tessile/, 9 gennaio 2025
[6] https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-inflazione/2024-indagine-inflazione/12/Statistiche_iai_2024Q4.pdf, 14 gennaio 2025
[7] https://ilmanifesto.it/crolla-la-produzione-industriale-71-a-dicembre-le-opposizioni-una-caporetto-del-governo, 13 febbraio 2025
[8] https://www.cgil.it/ufficio-stampa/produzione-industriale-cgil-e-disastro-23-mesi-di-calo-ma-governo-inerte-ynyah23t, 12 febbraio 2025
[9] Ibidem, vedi nota 6
[10] Stefano Carli, https://www.linkiesta.it/2025/01/italia-occupati-economia/, 16 febbraio 2025
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