Lo scorso primo novembre, nella colombiana Cali, la 16esima Conferenza Onu sulla biodiversità (Cop16) si è incagliata sul punto dolente: mobilitare le risorse per passare dalle affermazioni di principio alla protezione concreta degli ecosistemi. In particolare, rendere operativa la decisione adottata al summit precedente, il Protocollo di Kumming-Montreal, di mettere sotto tutela il 30 per cento della superficie terrestre e la metà di quella marina entro il 2030. In pratica oltre quattro volte l’area attualmente considerata. Un passo storico. Ma destinato a restare virtuale senza soldi per farlo. Dove trovarli? Un interrogativo da 200 miliardi di dollari: tanto ci vuole, all’anno, secondo gli esperti, per contrastare la distruzione della natura. Dopo due settimane di interminabili discussioni, esausti, i 154 rappresentanti presenti a Cali avevano gettato la spugna e sospeso il vertice per “mancanza di tempo” per raggiungere l’accordo. Meno di quattro mesi dopo, ci riprovano con un incontro supplementare.
La Cop16 bis si è aperta ieri a Roma, nella sede Fao, per non lasciare nei prossimi due anni – quando sarebbe stato previsto il prossimo appuntamento canonico -, le politiche internazionali per la protezione degli ecosistemi prive dei mezzi necessari. Lo scenario è drammatico: in meno di mezzo secolo quasi il 13 per cento degli uccelli e il 30 per cento degli anfibi è in via di estinzione. Le altre specie – tra cui il 73 per cento dei vertebrati e il 22 per cento dei mammiferi – hanno subito una drastica riduzione. In parallelo sono cresciute le minacce dirette per la salute e la sopravvivenza di tutti gli abitanti della casa comune, esseri umani inclusi. Da qui l’urgenza di agire. I negoziati, però, procedono a rilento nonostante gli appassionati appelli della presidente, la ministra – dimissionaria – dell’Ambiente della Colombia, Susana Muhammad. “La posta in gioco è la missione più importante dell’umanità nel XXI secolo, in altre parole la nostra capacità di sostenere la vita su questo pianeta”, ha detto.
La presidenza colombiana propone un “processo” di negoziati per creare, entro la Cop17 del 2026 in Armenia, un nuovo “strumento finanziario” per gli aiuti allo sviluppo, posto sotto l’autorità dell’Onu, che dia più voce in capitolo ai Paesi poveri. Proprio come al summit per il clima di Baku, il confronto vede contrapposti Nord e Sud geopolitico. E’ nel secondo che si concentra la biodiversità: 15 delle 17 nazioni che ne detengono i due terzi sono economie in via di sviluppo, dal Congo al Venezuela. Queste chiedono con forza la creazione di un fondo ad hoc con risorse finanziarie addizionali, cioè non quelle già allocate e conteggiate nell’ambito di altri impegni. Vogliono, poi, che gli Stati ricchi abbiano l’obbligo di contribuirvi (al momento il meccanismo è su base volontaria). Vari di questi ultimi, però, si oppongono sostenendo che il nuovo fondo rappresenterebbe una “complicazione non necessaria”. Legato al tema, il nodo dell’indirizzo dei finanziamenti esistenti. In base ai dati del Programma Onu per l’Ambiente ogni anno nel mondo, vengono investiti circa 7mila miliardi di dollari, provenienti sia da fonti pubbliche che da privati, in attività che hanno impatti negativi diretti sulla natura. Una cifra pari a circa il 7 per cento del Pil globale. Anche solo una parte colmerebbe i gap finanziari per la biodiversità nonché per la transizione ecologica.
Il clima internazionale di tensione e l’inversione di rotta su ambiente e cooperazione della Casa Bianca di Trump non aiuta. Gli Usa non hanno firmato la Convenzione Onu sulla biodiversità ma l’Amministrazione Biden aveva donato 160 milioni per la protezione della natura. Ora i tagli all’Agenzia statunitense Usaid, al contrario, stanno costringendo molte nazioni povere a fermare i progetti sull’ambiente. Per dare slancio alla discussione, il vertice ha presentato in apertura il principale successo di Cali: il varo di un omonimo fondo per la giusta ed equa condivisione dei benefici derivanti dall’uso di informazioni relative al sequenziamento digitale delle risorse genetiche. Si prevede che le grandi aziende che sfruttano commercialmente i dati provenienti dalle risorse genetiche in natura vi contribuiscano con una parte dei ricavi. Dopo gli applausi di rito, però, si è tornato a discutere, tra porte sbattute e incontri rinviati. Di questo passo, la conclusione entro domani appare difficile. Già ci si prepara ai supplementari dei supplementari. Nella speranza che il bis della Cop16 non riguardi anche il finale, inconcluso.
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