Luca Steinmann, come giornalista, ha raccontato la guerra sul fronte russo da un’angolazione particolare: lui e il suo collega Gabriele Micalizzi erano gli unici italiani autorizzati a restare nel Donbass e documentare il conflitto dall’altra parte del fiume Donec. Purtroppo nell’agosto 2024 è stato espulso, ma questo non l’ha demoralizzato e da allora continua a raccontarci i diversi conflitti nel mondo. Nell’ultimo libro Vite al fronte (Rizzoli, pp. 272 euro 18) annoda i fili, dimostrando come questi si intreccino fra di loro e si alimentino a vicenda. Lo fa scegliendo di dare voce alle tante storie di civili in fuga da entrambi i lati e di parlare con loro del passato. Perché ogni guerra innesca la successiva, che sarà incomprensibile senza considerare la precedente. Ognuno crea la sua memoria storia, con le sue ferite, rendendo il dialogo sempre più difficile
Sembra che il mondo sia improvvisamente impazzito…
Il Papa l’ha definita la terza guerra mondiale a pezzi, perché tutti questi conflitti sono strettamente legati fra di loro, con nazioni potenti che parteggiano per l’uno o l’altro fronte, obbligando migliaia di civili a fuggire dalle loro case, salvo poi ritrovarsi coinvolti loro malgrado in nuove guerre.
L’est Ucraina ha perso un grande numero di abitanti: sono molti quelli che ancora scappano?
La città di Donetsk nel Donbass vive da dieci anni sotto le bombe, prima con gli scontri fra filorussi e ucraini e poi con l’invasione. Fino al 2014 qui abitavano un milione di persone, oggi sono la metà. Molti uomini sono morti in battaglia, altri se ne sono andati, soprattutto in Russia. Dei 40.000 ebrei presenti nel 2004 ne sono rimasti solo 3.000. Molti di loro si sono trasferiti in Israele. Ed è successo anche a Diana, di Odessa, che all’alba del 24 febbraio 2022 si è ritrovata sotto i colpi di mortaio, che l’hanno costretta a rivivere antiche paure, lei che era cresciuta con i racconti delle persecuzioni naziste subite dai nonni durante la seconda guerra mondiale. Qualche giorno dopo ha preso i due figli Isaac e Rafael ed è salita su un autobus per passare la frontiera. Si è trasferita Tel Aviv, per ripiombare nella guerra il 7 ottobre 2023, con lo sterminio di Hamas. “Ormai non possiamo sentirci sicuri da nessuna parte”, mi ha detto. “Noi ebrei siamo sempre più soli”.
In Israele le divisioni diventano sempre più ampie, come mai secondo lei?
Molti ebrei si sono sentiti traditi. Nel kibbutz di Be’eri, attaccato dai terroristi il 7 ottobre, vivono molti attivisti di sinistra che aderiscono ai movimenti pacifisti. Per questo c’erano diversi abitanti di Gaza che lavoravano lì e l’impressione è che siano stati loro a suggerire ad Hamas dove erano dislocate le armi e dove stazionavano i soldati, perché i terroristi sapevano esattamente dove andare. Gli abitanti sono stati colti di sorpresa e si sono sentiti estremamente vulnerabili, perché nemmeno la potente difesa israeliana è riuscita a proteggerli. La famiglia di Eyal è stata fortunata, è riuscita a chiudersi in tempo nella security room, presente in ogni casa, costruita con acciaio ermetico in grado di resistere alle pallottole, ma non è stato così per tutti.
Anche molti Palestinesi sono diventati esuli?
Nel 1948, durante la Nakba, migliaia di civili sono fuggiti all’estero. Quando ho conosciuto Taima, in Siria, mi ha raccontato che i suoi nonni arrivarono nel paese dopo aver lasciato i villaggi israeliani dove erano nati. Si erano stabiliti a Qunaitra, sul confine, ma poi, durante la guerra del 1967, i suoi genitori si sono dovuti spostare a Damasco. I loro vicini erano ebrei, erano persino diventati amici, segno che la convivenza non è impossibile. Finché nel 2015 la situazione, durante la guerra civile, era diventata troppo pericolosa e ora Taima e sua madre vivono in Svezia, dove sono state accolte come rifugiate. La famiglia ha vissuto un esodo per tre generazioni di fila. Questi continui traumi non fanno che inasprire le divisioni di una nazione dove vivono popoli molto diversi, sciiti, sunniti, palestinesi, ebrei, cristiani e drusi. Al-Julani, il nuovo comandante della Siria, lo sa molto bene e per il momento ha cercato di rassicurare le minoranze. Al vescovo di Aleppo, Hanna Jallouf, hanno garantito che i beni dei cristiani non saranno espropriati. I nuovi governanti non vogliono ripetere l’errore dei ribelli all’inizio della guerra civile, quando cercarono di imporre un gruppo sugli altri, facendo recuperare consensi ad Assad. Ma il vero problema, per la Siria, è che lì si gioca una complessa partita geopolitica fra Russia, America, Iran e Turchia. La pace non è nelle mani dei suoi abitanti, ma in quelle di queste quattro nazioni.
In Libano ci sono le stesse tensioni della Siria?
Senza dubbio. Quando ho parlato con Mahmoud, mi ha spiegato la difficile situazione dei palestinesi. Lui è nato nel 1980, in piena guerra civile, nel campo profughi di Ain-al-Hilweh, nella città di Sidone. Non essendo cittadino libanese non poteva lavorare negli uffici pubblici e faceva fatica a trovare mansioni anche nel privato, per cui era costretto ad accettare i lavori più umili. Nel 2000, con alcuni amici, ha creato un’associazione per favorire lo sviluppo professionale dei ragazzi più giovani e allontanarli dalle idee estremiste di al-Qaeda. “Loro avevano sempre tanti soldi e questi fanno gola ai più bisognosi” mi ha detto. Poi ha dovuto andarsene, perché l’associazione è stata accusata di permettere alle donne di non coprirsi con il velo e ai ragazzi di ascoltate musica, che secondo alcune interpretazioni dell’Islam più radicale è seriamente proibito. La presenza di terroristi si ritorce ovviamente contro i palestinesi, perché alcuni paesi arabi particolarmente ricchi come l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi osteggiano i Fratelli mussulmani, di cui Hamas è una filiale, e non hanno alcun interesse ad accoglierli.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link