Righetto suona l’allarme: «Dal clima all’overtourism, è ora di sporcarsi le mani»

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Dopo i molti romanzi ambientati nelle montagne venete, Matteo Righetto ha scritto un libro in cui prevale la vena saggistica – di denuncia se si vuole – anche se le tracce narrative non scompaiono del tutto. “Il richiamo della montagna” (Feltrinelli, p. 128, 14 euro), da oggi in libreria, parla di clima e di overtourism, di mondo selvatico e antropocentrismo feroce, dei tempi lunghi della natura e del culto dell’istante della contemporaneità.

«Per una urgenza culturale. Negli ultimi anni ho avvertito che intorno ai miei libri di narrativa andava creandosi una comunità di persone sensibili ai temi che affrontavo e questo mi ha spinto ad offrire a questi lettori, a queste lettrici anche le mie osservazioni, le mie riflessioni, perché non si può stare con le mani in mano, non si può lasciarsi andare al flusso mainstream che suggerisce agli scrittori di non esporsi, di limitarsi a raccontare storie. E la forma giusta per dire la mia era il pamphlet, per quanto ibridato, almeno nella prima parte, da elementi narrativi».

Ci sono due eventi nel libro che fanno da perno: la tempesta Vaia e il collasso di una parte del ghiacciaio della Marmolada.

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«Sono due esempi eclatanti di come e di quanto siamo tutti fermi a osservare e giudicare gli effetti e mai a ragionare sulle cause dei problemi. Ci limitiamo al fatto in sé, ne parliamo per qualche giorno e non solleviamo mai la questione politica ed epocale che c’è dietro. Il riscaldamento globale sta cambiando il paesaggio, Vaia o il bostrico ne sono solo la manifestazione tangibile. Ma ancora più a monte c’è la perdita totale di una relazione – come dire – poetica con la terra. C’è la necessità di riscoprire un rapporto più profondo, più autentico con la bellezza di quello che sta intorno a noi e non possiamo dare mai per scontato che questa bellezza duri per sempre».

Nell’indicare questo diverso rapporto con la natura spazi tra diverse culture.

«In parte gioco in casa, perché Mario Rigoni Stern è stato un maestro nell’indicare la necessità di un limite e nel richiamare alla responsabilità nel rapporto con la natura. Ma anche Zanzotto e molti altri scrittori veneti hanno avuto questa sensibilità. Non volevo limitarmi alla invettiva, alla “pars destruens”, così nella seconda parte del libro ho provato ad offrire una “pars costruens”, ho indicato suggestioni, idee, sentieri che si rifanno a una sapienza antica che si trova in molte civiltà, da quelle dei nativi americani, a quella degli antichi norreni che abitavano le terre europee prima che questo continente venisse addomesticato. In comune queste culture hanno il senso di sacralità della natura, la percezione del “respiro” delle montagne, che in questo libro sono una sineddoche della terra intera, la parte per il tutto».

Come recuperare questo rapporto?

«Mettendoci in ascolto. Le migliaia di persone che vanno a Roccaraso, ma anche sui passi dolomitici, non si portano a casa niente, non fanno nessuna esperienza. Io chiedo a chi viene in montagna di fermarsi, di ascoltare il respiro, non cercare solo l’adrenalina individuale. Deve diventare un’esperienza di condivisione sociale, che mantenga il punto di vista sul bene comune».

Come in alcuni romanzi ti soffermi sul valore del “selvatico” autentico, non di quello che cerca l’estremo.

«Il selvatico, quello buono, ha a che fare con la capacità di riconoscersi in uno spirito antico, che possiamo assaporare inconsapevolmente in certi momenti a cui di solito non diamo un nome: quando sentiamo il bramito del cervo o l’ululato del lupo e ci vengono i brividi, oppure quando avvertiamo i profumi del bosco, quando mettiamo i piedi in un ruscello, quando arriva la prima neve. In quegli istanti torniamo a quell’antico spirito selvatico, non siamo più irregimentati dall’overtourism».

Dopo molti anni di crescita però la sensibilità ecologica oggi si torna indietro.

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«È un rovesciamento completo della realtà, della natura delle cose, ma sono convinto che non potrà durare: chi grida tanto e sempre, poi perderà la voce. Più che il male del negazionismo, mi preoccupa il silenzio di chi ha una idea diversa, ma non va oltre la critica stando seduto sul divano di casa. L’intellettuale deve sporcarsi le mani». —



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