È un classico intramontabile, “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg, libro che non è tecnicamente autobiografico e che non ha una vera trama. Tra le durezze della guerra, l’entusiasmo per la fine del conflitto bellico e il ritorno a sconforto e disillusione, la storia di una famiglia tribù – ma non una famiglia qualunque – col suo gergo e i suoi aneddoti…
Pubblicato nel 1963 e vincitore del Premio Strega lo stesso anno, Lessico famigliare (264 pagine, 13,50 euro), edito da Einaudi, è un testo importantissimo nel panorama letterario italiano e anche internazionale, e ciò che rende questo classico così prezioso è proprio il fatto che l’autrice, Natalia Ginzburg, ripercorrendo i luoghi della sua memoria abitati da quei ‘personaggi’ presenti nel periodo della sua infanzia e anche oltre, ripercorre pure un importante periodo della Storia quale l’avvento del fascismo, l’avanzata dei tedeschi in Europa, l’antisemitismo, la lotta partigiana e anche ciò che fu il secondo dopoguerra. Ovviamente non c’è una spiegazione dei fatti storici né un ordine cronologico né una trama vera e propria, e non si tratta neanche di un’effettiva autobiografia in quanto l’autrice riporta pochissimi aneddoti che la riguardano: «Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia».
Quel padre burbero e simpatico
Dominante infatti è la figura paterna nel libro, Natalia la ripropone continuamente inserendo molto spesso i commenti del padre che, non importa quale situazione nello specifico, si poneva sempre a giudice di ogni cosa. «-Son più brutti i Coen! – urlava mio padre. – Vuoi mettere coi Colombo? Non c’è paragone. I Colombo son meglio. Non hai occhi! Non avete occhi voialtri!» «[…] non perdeva mai un’occasione per dichiarare che i quadri di Carlo Levi non gli piacevano. – Ma no Beppino! Invece son belli! – diceva mia madre. – Il ritratto della sua mamma è bello! Tu non l’hai visto! – Sbrodeghezzi! – diceva mio padre».
La gamma delle ‘negrigure’ da non fare in famiglia era molto vasta, coinvolgeva diversi campi e contesti: «Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!» Sicuramente un padre altero e iroso è vero, ma agli occhi del lettore e nel modo in cui ce lo descrive la figlia, oseremmo dire simpatico! Questo a grandi linee il ritratto umano del rinomato scienziato Giuseppe Levi, figura importante in ambito medico e scientifico di quegli anni del Novecento, nonché maestro di Rita Levi Montalcini. Ma i frequenti risvegli nella notte di cui ci narra Natalia, sempre a proposito ora dell’uno ora dell’altro figlio, rivelano un’indole premurosa: «- Cos’è che Gino ha quel muso? – diceva mio padre a mia madre, svegliandola nella notte. – Cos’è che ha quella luna? Non si sarà mica messo in qualche pasticcio?».
La madre lieta e gaia
Al padre di Natalia Ginzburg è attribuibile la maggior parte delle parole rientrate a mo’ di identificazione della ‘tribù’ famigliare: «Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone». La figura della madre invece, Lidia Tanzi, è legata più che a foggiare parole in sé, all’evocazione di intere frasi o spezzoni di poesie impresse nella sua memoria fin da piccola, richiami del passato ripresi a sua volta da una Natalia infante, poi giovane e poi adulta, così come ne ha percezione il lettore nel corso del libro dove si passa da una visione un po’ offuscata del sentire della ‘bimba’, via via a una consapevolezza più matura. Un esempio di ciò è il rapporto incomprensibile che ha Filippo Turati (frequentatore di casa Levi e tenuto qui nascosto prima della fuga) con Anna Kuliscioff: la piccola Natalia non riesce a capire perché, non essendo loro due marito e moglie, vengano sempre menzionati insieme; «Non capivo poi da dove l’Andreina, amica d’infanzia di mia madre e figlia della Kuliscioff, fosse schiodata fuori».
Tornando a Lidia, la madre di Natalia Ginzburg, a differenza del marito ha un carattere decisamente più lieto e gaio, paziente col marito, affabile coi figli, le piace prendersi cura del suo aspetto, fare combriccola, andare al cinematografo e leggere Proust, un ‘sempiezzo’ per il marito una grande passione per la moglie, e da qui probabilmente l’amore di Natalia per À la recherche du temps perdu di cui fu traduttrice.
Più vitalismo che drammaticità
A proposito della pericolosa avventura di Mario (uno dei fratelli di Natalia) al Ponte Tresa al confine con la Svizzera, in seguito alla quale finisce agli arresti e vi finiscono anche il padre e Gino (altro figlio e fratello), è esplicativo ciò che riporta Natalia Ginzburg: «Mio padre era però felice di avere un figlio cospiratore. Non se l’aspettava: e non aveva mai pensato a Mario come a un’antifascista». I riferimenti al carcere e agli arresti non sono narrati in chiave tragica o tormentosa, anzi c’è una sorta di compiacimento e ardimento nel vivere un’esperienza così molesta ma sentita quasi gratificante. All’ipotesi che Alberto, altro figlio dei Levi, potesse essere arrestato anch’egli, il padre contesta: «Metterlo dentro, lui che è la futilità in persona!» E invece Alberto che fu mandato al confino e che al pari dei suoi fratelli ebbe rapporti coi gruppi di Giustizia e Libertà, reinsediatosi a Torino e iniziando a curare i suoi pazienti in qualità di medico, esclama: «Che città noiosa Torino! Come ci si annoia! Non succede mai niente! Almeno una volta ci arrestavano! Ora non ci arrestano più. Ci hanno dimenticato. Mi sento dimenticato, lasciato nell’ombra!» Allo stesso modo, per la moglie di Felice Balbo, Lola, il periodo della sua vita che ricordava con più piacere era quello della galera, dove «s’era sentita molto a suo agio, finalmente a posto, in pace con sé stessa, libera di complessi e di inibizioni».
Probabilmente è la scrittura della Ginzburg a conferire questo vitalismo a tutta la storia nel suo complesso, in quanto la stessa impressione di assenza di drammaticità riguarda le restrizioni generate dall’antisemitismo, come la perdita della cattedra di Giuseppe Levi che ripara in Belgio, e all’arrivo qui dei tedeschi Levi si presenta col suo nome inconfondibilmente ebraico; o durante i bombardamenti su Torino Levi rifiuta di seguire la moglie in cantina giudicandolo «un sempiezzo»: se dovesse venir giù la casa porta con sé anche la cantina.
Il marito Leone e Pavese
La morte del marito di Natalia, Leone Ginzburg, torturato dai fascisti, è sorvolata quasi come un fatto a lei estraneo: «Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori di casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più». Accenna invece ai sentimenti suscitati in Cesare Pavese da questa morte: «Era stato il suo migliore amico. Forse annoverava quella perdita fra le cose che lo straziavano». Il ritratto di Pavese all’interno della casa editrice Einaudi è descritto dalla Ginzburg in modo da raccoglierne i tratti peculiari, ovvero la durezza e la sdegnosità del suo carattere miste a grande insofferenza per la vita in sé, ma allo stesso tempo con un «fondo ironico» che però si rivelava solo nei rapporti coi suoi amici; «la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso».
Alla casa editrice dopo la guerra giungevano molte poesie di giovani poeti, perché durante il fascismo l’interdizione delle parole o della libertà di esprimere i propri pensieri avevano contribuito a generare l’aridità del mondo circostante, e quindi al termine della guerra ci fu un proliferare di idee, scritti, poesie e considerazioni politiche, ma il tutto ripiombò presto in una profonda disillusione e sconforto, che rifece a tutti prendere in mano di nuovo la propria vita e il proprio mestiere a garanzia di sostentamento e di che vivere, così che il mondo si faceva di nuovo «ammutolito e pietrificato» come prima della guerra.
La madre di Natalia, Lidia, questo mondo «riprese ad abitarlo come poteva. Riprese ad abitarlo con lietezza, perché il suo temperamento era lieto. Il suo animo non sapeva invecchiare e non conobbe mai la vecchiaia, che è starsene ripiegati in disparte piangendo lo sfacelo del passato».
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