Venezia dovrebbe pagare in qualche modo un tributo alla parola lapalissiano. Il 24 febbraio del 1525, cinquecento anni fa, moriva nella battaglia di Pavia, il generale Jacques II de Chabannes, signore di la Palice, Maresciallo di Francia. Era stato il comandante delle truppe tedesche e francesi che assediarono le mura di Treviso, città che era rimasta, nell’autunno del 1511, l’ultima alleata della Serenissima che stava per essere schiacciata dalla Lega di Cambrai, cioè l’Europa intera di allora.
Se Treviso fosse caduta Venezia sarebbe rimasta sola e facilmente eliminata. Il generale Jaques de La Palice, dopo aver inutilmente assediato Treviso, considerò quelle mura invincibili e tornò indietro. Per le opere di difesa che alla fine salvarono anche Venezia interi quartieri della città di terraferma vennero allora abbattuti. Il volto che Treviso conserva – le uniche due vere porte rimaste, per esempio – è l’impronta di quello dato allora.
Che di questi tempi quasi nessuno si ricordi del valore di Treviso (e della fortuna di Venezia) è comprensibile ma non è “lapalissiana” la storia di questa parola, legata ad in generale di professione e valore, che condusse sei guerre nel nostro Paese.
Jacques II de Chabannes, signore di la Palice, Maresciallo di Francia è ancora in Italia nel 1525, comanda una parte dell’esercito francese contro gli spagnoli. Ha 55 anni e quel giorno di febbraio guida un numeroso gruppo di uomini a cavallo con lunghe lance che indossano pesanti armature.
Ma niente può una carica di valorosi contro gli archibugi dei lanzichenecchi. Il suo cavallo cade e a lui non rimane altro che cercare la fuga, difficilissima con decine di chili di ferro che lo imprigionano. Quella di Pavia sarà ricordata da molti storici anche come il luogo dove l’organizzazione delle battaglie cambierà.
Nella Storia di Milano (1798) Pietro Verri scrive così:
Egli ebbe ucciso sotto di sé il cavallo. Vecchio com’era (55 anni ndr) cercò di combattere a piedi; ma Castaldo, luogotenente del Pescara, lo fece prigioniero. Castaldo conduceva in luogo sicuro il suo prigioniero; un capitano spagnuolo per nome Buzarto osservò Chabannes, il più bel vecchio del suo secolo, nobile, magnifico, e riconobbe che doveva essere un signore di distinzione, di cui verrebbe lucrativo il riscatto; pretese di essere associato al Castaldo, che lo ricusò; e il Buzarto con una archibugiata gettò morto il Maresciallo di Chabannes dicendo: “Ebbene non sarà dunque né mio né tuo!”
Era prassi che agli alti ufficiali e ai comandanti venisse salvata la vita perché destinati a scambio in denaro; a La Palice era già accaduto, proprio in Italia. Ma stavolta per lui non ci sarà riscatto.
È dalla quella morte a Pavia che comincia la storia di “lapalissiano”. Poiché era prassi – tradizione che discende direttamente dalla Chanson de Roland – che i compagni d’arme dedicassero al comandante deceduto in battaglia una canzone quella di La Palice dice: ” Ahimè, la Palice è morto./ E’ morto davanti Pavia; / Ahimè, se non fosse morto, / farebbe ancora invidia”.
In francese la canzone ‘lapalissiana’ che tanti conoscono fa così: “Hélas! La Palice est mort devant Pavie; Hélas! S’il n’estoit pas mort, il seroit encor en vie”.
Torneremo su questo tormentone che è quello che ha dato origine alla parola che indica palesi ovvietà. Ma per capire bene prima bisogna seguire una vicenda che si mischia con la letteratura e l’omofonia di qualche parola francese.
Dopo la morte del valoroso combattente non accade nulla e nessuno riporta stravolgimenti linguisti come quelli ai quali assisteremo. La vedova del generale, riportano alcune fonti, avrebbe tuttavia fatto scrivere sul monumento funerario: “Qui giace il Signore de La Palice/ Se non fosse morto farebbe ancora invidia”. Non abbiamo prove perché il monumento venne distrutto durante la rivoluzione francese.
È sul quel finale “farebbe ancora invidia” che gira tutta la storia che si lega a lapalissiano. Andiamo ancora per gradi. Nell’antica grafia francese “f” e “s” erano scritte in modo (come in italiano antico del resto) che si somigliassero. Per cui pare che già nel XVI secolo l’ultimo verso si trasformasse in: ”Sarebbe ancora in vita”, tanto diverso dal “farebbe ancora invidia” (perché era un forte guerriero e aveva combattuto con onore).
Così, colpa della “f” che si può leggere come “s” e quindi “farebbe” diventa “sarebbe” e colpa dell’omofonia francese per cui “invidia e “in vita” hanno stesso suono la storia della fine di La Palice si trasforma in una specie di giallo anche se grottesco. Insomma il necrologio muliebre scomparso sarebbe già stato storpiato piuttosto presto ma ad un livello, diciamo, piuttosto basso e per un uso popolaresco per cui si dovrà attendere l’operato di un accademico di Francia, poeta e scrittore, Bernard de La Monnoye (1641 – 1728), che capisce al volo il tragicomico della vicenda.
E compone i versi di una canzone che finisce così:“Monsieur d’la Palisse est mort,/ il est mort devant Pavie,/ Un quart d’heure avant sa mort,/il était encore en vie”. (un quarto d’ora prima di morire/ era ancora vivo”). C’è da sghignazzare ma non si può ancora dire “lapalissiano” o “lapalissade” come pronunciano i francesi, associando la situazione al sinonimo “truisme”.
La Monnoye viene cantato e citato anche se per poco. Cose della vita.
Deve arrivare Edmond de Goncourt (con il fratello sono i due da cui deriverà il premio omonimo) che a metà del XIX si imbatte nei versi di La Monnoye; e crea un nuovo termine “lapalissiano” per indicare una cosa che ripete quello che è ovvio. Pertanto fastidiosamente superfluo. In fondo Goncourt non inventò granché: copia da Lapalisse che è il nome dalla città che ospita il castello appartenuto al generale assalitore (sconfitto) di Treviso. Lapalisse si trova nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi, dipartimento di Vichy, vi vivono attualmente circa tremila persone.
Memorabile questa data del 24 febbraio 1525: muore u()n generale ma nasce una parola che è memoria invincibile dell’ovvietà. Tutto per qualche scherzo da caserma, una tomba distrutta, e scrittori in vena di creazioni. Helas! monsieur de La Palice. (Ça va san dire).
Immagine di copertina: ritratto equestre del Maresciallo de La Palice, di Ary Scheffer, 1844, galeries historiques de Versailles.
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