Media e crisi della mediazione

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ino a qualche decennio fa non era necessario che un singolo individuo sostenesse una grande quantità di informazioni per farsi un’idea. La possibilità di comprendere era affidata a persone qualificate che filtravano le nozioni da trasferire nei circoli istituzionali del partito, della chiesa, del sindacato. Ci si raccomandava alla competenza del professore, del vescovo, dello scienziato, dell’intellettuale, che formavano classi dirigenti capaci di raccogliere le necessità della comunità, analizzare cause e conseguenze, fornire prospettive nel lungo termine, promuovere cambiamenti e perfino rivoluzioni.

Nel bene o nel male, la formazione delle opinioni non faceva capo solo a grandi interessi politico-economici, ma spesso era legata a giornali indipendenti, sostenuti soprattutto dai lettori che si riconoscevano attorno a una visione di mondo costruita con gli strumenti della cultura, del confronto e del ragionamento. A ciò si aggiungeva la presenza del cosiddetto “terzo posto”, come i caffè, i circoli, le sezioni, le piazze, che dopo la casa e il lavoro diventavano spazi di aggregazione e di confronto reale e che dall’Illuminismo agli anni Novanta del Novecento avevano dato vita a movimenti culturali impetuosi e capaci di eleggere rappresentanze in grado di incidere sulla realtà.

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Sebbene la trasmissione verticale del sapere non raffiguri il migliore dei mondi possibili, soprattutto perché l’accesso alla conoscenza e alle informazioni era spesso prerogativa della borghesia, mentre le classi meno abbienti e le donne erano quasi del tutto escluse anche dal dibattito, è comunque  utile riferirsi a un modello gerarchico di organizzazione e trasmissione delle informazioni, non per rivalutarlo nostalgicamente, ma per riflettere sulla formazione dell’opinione pubblica nel contesto di una rappresentanza in grado di interpretare la realtà, restituendone una immagine complessa e per mettere in luce le implicazioni politiche tra informazione e democrazia, in un mondo dove la presa di parola del singolo non è più fondata sull’argomento, sulla ragione, sul confronto e sulla partecipazione, ma piuttosto sulla reazione immediata e solitaria a contenuti personalizzati, dentro piattaforme private che impediscono la costruzione di un sapere competente e democratico.

Oggi si sono confusi tutti i piani di una rappresentanza in grado di filtrare e formare le conoscenze per gradi e ci ritroviamo immersi in una grande mole di informazioni non mediate da figure specializzate. I dirigenti dei partiti non hanno capacità analitiche, filosofiche, sociali o scientifiche con le quali interpretare il mondo, non sono cioè intellettuali di riferimento, ma opinionisti e comunicatori abili per lo più a costruire community fondate su opinioni di tendenza selezionate dai loro spin doctor. I giornali, quando non sono interamente di proprietà di gruppi finanziari, trattano l’informazione solo come una merce anziché come un dato della conoscenza, inseguendo la sensazionalità per garantire maggiore visibilità agli investitori che applicano sulle pagine di riferimento i loro banner pubblicitari. Tutto ciò con ovvie ripercussioni sulla qualità dei contenuti, dal momento che sono i gossip a ottenere la maggior parte dei click.

L’apertura massiva e generalizzata all’informazione non ha eliminato la differenza tra dominati e dominanti nell’accesso al sapere, anzi ne ha amplificato le distanze.

Alla perdita di rispettabilità degli organi di stampa, delle istituzioni del sapere e delle organizzazioni politiche, si unisce una generale demonizzazione dell’intellettuale e la rinuncia a una complessità che mette sullo stesso piano lo scienziato e lo youtuber. Dai guru dello sviluppo personale, che affiancano la spiritualità alla fisica quantistica, fino ai no-vax che invitano a iniettarsi la varechina contro il Corona virus, ai counselor e ai personal coach che si improvvisano psicologi, elargendo consigli sulla salute mentale senza avere neppure una laurea triennale, vengono usati canali diretti come blog, chat e reel per fornire informazioni a un pubblico di persone comuni che in ogni caso non ha le competenze per poterle verificare. L’assenza di gerarchie nelle idee ha fatto sì che l’opinione di uno scienziato, per esempio su temi medico-farmacologici, valesse quanto quella di un imprenditore immobiliare. Il confronto, che avviene soprattutto online, spesso è risolto in un dissidio tra privati, la critica si dirige verso un utente considerato di pari grado nella formulazione delle opinioni al quale, piuttosto che rivolgere argomenti razionali, nella migliore delle ipotesi, si inviano brevi commenti sgrammaticati pieni di risentimento.

Diversamente dal passato, il potere mediatico favorisce omogeneità e uguaglianza tra consumatori e produttori di informazioni. Non opprime, non censura, offre a ognuno pari dignità nell’espressione della propria opinione. Se dunque l’accesso democratico all’informazione per certi aspetti è salutare, dall’altro comporta il rischio di una qualità informativa scadente e di un confronto dominato dalle emozioni piuttosto che dal ragionamento, dunque infruttuoso, praticamente inesistente e con conseguenze dirette sulla verità dei fatti. Questa direzione è confermata, per esempio, dall’abolizione del fact cheking di Meta, sostituito con le community notes, ovvero con note prodotte dagli stessi utenti per autoregolarsi nella verifica delle informazioni. Per quanto blanda e di per sé inutile, dato il caos irrefrenabile di fake news che proliferano nella rete, l’eliminazione del fact cheking è il sintomo di un potere mediatico che non vuole intermediari o gerarchie nelle idee divulgate. Sebbene possa sembrare lodevole questa iniziativa, affidare alla community il compito della verifica dei fatti, equivale però a delegare la costruzione di un viadotto al giudizio di chiunque si trovi a passare casualmente davanti al cantiere.

Bisogna inoltre considerare che l’apertura massiva e generalizzata all’informazione non ha eliminato la differenza tra dominati e dominanti nell’accesso al sapere, anzi ne ha amplificato le distanze. Da un lato, élite proprietarie delle piattaforme dirigono i flussi dell’informazione, basando i loro business su contenuti prodotti dagli utenti stessi. Dall’altro, uno sciame di individui, pressoché uguali tra loro nei diritti e nelle libertà, attinge a risorse mediatiche sotto la spinta di un consumo sommario di articoli, reel e immagini senza alcuna verifica delle fonti, ma guidato piuttosto da una percezione capace di innalzare la sensazione soggettiva a dignità di dato statistico.

L’accesso libero e diretto ai contenuti, spesso somministrati da chi mira a persuadere o a orientare il comportamento verso l’acquisto di un corso, di un prodotto o di una idea, genera l’illusione di essere sufficientemente competenti per inoltrarsi con disinvoltura in ogni ambito della conoscenza e di poter discernere in autonomia il vero dal falso. La persona che non attinge più a risorse collettive fornite dai partiti, dalle organizzazioni, dalla stampa, dagli specialisti, cerca dunque di soddisfare in solitaria il bisogno di conoscenza attraverso le narrazioni fornite dai media. Questo induce a credere di poter ottenere un grado di abilità tale da consentire di risolvere problemi che sono al di fuori della nostra portata. L’idea che si possa fare affidamento solo su sé stessi per affrontare individualmente sia il proprio destino sia quello del pianeta, spegnendo ad esempio i termosifoni per contrastare la guerra in Ucraina, oppure risolvere il cambiamento climatico raccogliendo le cicche da terra o migliorare le proprie condizioni di vita con la logica del merito, si riflette anche nell’ambito della conoscenza e dell’acquisizione delle informazioni.

L’idea che si possa fare affidamento solo su sé stessi per affrontare individualmente sia il proprio destino sia quello del pianeta si riflette anche nell’ambito della conoscenza e dell’acquisizione delle informazioni.

Si ha l’impressione di potersi creare un’opinione tra miliardi di informazioni per dare risposte soggettive a eventi, problemi e quesiti di grande entità, rispetto ai quali anche lo studioso più formato avrebbe difficoltà a rispondere. D’altronde, così come per il mercato siamo tutti classe imprenditoriale, capaci di “farci da soli”, allo stesso modo, nella libera informazione siamo in grado di accedere a ogni tipo di contenuto, di produrlo e consumarlo per diventare all’occasione speleologi, psicologi, filosofi o infettivologi. Ci siamo liberati dei grandi apparati di senso che dirigevano le nostre vite per affidarci a noi stessi o alla contingenza di voci prive di autorevolezza. Tutto ciò alimenta anche l’arroganza di chi è convinto di poter esprimere una opinione ben formata solo perché ha visto un reel su Instagram, unendo alla sfiducia nella scienza, nel sapere e nell’informazione la reticenza a delegare a un altro più competente il compendio della propria ignoranza.

Nonostante la sicurezza ostentata nei propri mezzi, il consumo bulimico di contenuti lascia tuttavia insoddisfatto il bisogno di conoscenza. L’accumulo di informazioni non garantisce infatti alcuna stabilità nel lungo termine, mettendo l’utente in una condizione di costante incertezza rispetto a ciò che conosce. Mantenere sempre aperto il desiderio di sapere è un circolo virtuoso in un mercato di contenuti per il quale è l’offerta a generare la domanda. Questa dinamica, piuttosto che garantire una pluralità dell’informazione di qualità, sprona a consumare un numero sempre maggiore di contenuti, senza mai raggiungere un’acquisizione stabile, approfondita e corretta sull’argomento di interesse. Favorisce invece la proliferazione di prodotti editoriali che aggiungono entropia a un sistema di informazioni già di per sé caotico e di bassa qualità. Sebbene non avere certezze assolute sia l’essenza di un approccio critico e aperto al sapere, la sostanziale e necessaria superficialità delle nozioni ottenute dai media si risolve invece in un radicamento nelle proprie convinzioni, alimentato anche da un senso di sopravvivenza.

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La molteplicità delle informazioni è diventata infatti insostenibile per il singolo anche dal punto di vista cognitivo. In un mondo sempre più complesso nel quale a ognuno è affidata la responsabilità di farcela da solo, di procurarsi le informazioni da solo e in ultima analisi di salvarsi da solo, c’è bisogno di posizioni chiare e distinte per navigare con sicurezza nel grande mare dell’infosfera. Per reazione a una condizione nella quale tutte le voci si equivalgono, si risponde semplificando. Nonostante la complessità, o proprio in virtù di questa, le polarizzazioni del dibattito diventano più nette da ogni parte della barricata. Se si solleva un dubbio sui vaccini o su un d.p.c.m. si è complottisti, se si solleva un dubbio sull’intervento in Ucraina si è putiniani. Questa semplificazione consente un grado di certezza adeguata ad avanzare con sicurezza in un mondo percepito come minaccioso, complesso, incomprensibile e imprevedibile.

Nell’urgenza di ottenere una risposta istantanea per far fronte alle imminenti catastrofi che la comunicazione sensazionalistica ci propina ogni giorno, il soggetto pare non abbia il tempo di valutare, di ragionare o di lasciare sedimentare le informazioni per farle diventare conoscenze. La sua percezione reagisce alle informazioni come l’occhio alla luce e si ritrova vincolata alla necessità di rispondere immediatamente ai dati che si presentano alla coscienza. Nel freezing dell’angoscia di non sapere, il soggetto risulta incapace di universalizzare, di prendere le distanze, di trascendere, di astrarre, per individuare altre vie di fuga all’evidenza della sensazione. Nella progressiva decadenza del senso e dell’autorevolezza delle figure di riferimento del sapere, della politica e dell’etica, non esistono altre verità scientifiche o filosofiche alle quale affidarsi.

Per reazione a una condizione nella quale tutte le voci si equivalgono, si risponde semplificando.

L’unica certezza possibile, l’unica verità che non si può mettere in dubbio, è quella della sensazione. Si crede solo a ciò che si sente. E questo sentire non può essere problematizzato né da esperti né da evidenze scientifiche. La fede nelle sensazioni ha le stesse dinamiche di una dittatura per semplicità e forza. La sensazione non può avere dubbi o alternative così come un potere assoluto non può avere opposizioni. Se infatti ogni sapere critico e falsificabile si oppone all’assolutismo della percezione soggettiva, evolvendo nel tempo e basando la sua prassi su una messa in discussione costante dei suoi paradigmi, la sensazione rimane uguale a sé stessa attraverso le epoche, tendendo alla conservazione piuttosto che alla progressione.

La sovranità della percezione diventa oggi l’emblema di uno scetticismo radicale che paradossalmente mette in salvo ciò che nella storia del pensiero è sempre stata la prima cosa della quale dubitare, ovvero la sensazione. Nel confronto delle idee e nella lotta all’attenzione, non prevale l’informazione vera, ragionata e approfondita, ma quella che predomina sulle altre e che in virtù della propria forza comunicativa, emotiva, persuasiva e sintetica sa arrivare allo stomaco di chi l’ascolta. La sensazionalità delle informazioni gioca un ruolo fondamentale nell’individualizzazione dell’opinione. Se infatti la ragione logico-discorsiva è uguale per tutti in ogni parte del mondo, la sensazione è particolare e soggettiva. Sebbene tutti proviamo le stesse sensazioni, ognuno le prova a modo suo, sul proprio corpo e nella solitudine delle proprie percezioni, che diventano convinzioni, che diventano verità.

Nell’insicurezza generale di non sapere a cosa credere, la sensazione offre un supporto sicuro al quale aggrapparsi, diventando garanzia materiale dell’esistenza di almeno una certezza, la propria, che si sente fin dentro al corpo. La credenza nelle percezioni non mediate consente di avere in mano una verità che le istituzioni corrotte dai “poteri forti” non possono garantire con la stessa pregnanza. Il populismo, il complottismo, il razzismo, basano la loro forza sull’autoevidenza della sensazione, semplificando i fenomeni in una regola percettiva, immediata e particolare, che si rivela generale. Allo sguardo la terra è piatta. Se ci si ferma solo a questo stadio, chi infatti può dire il contrario? Ogni complotto, come ogni populismo, trova almeno un dato reale sul quale costruire intere teorie del sospetto. Si estrapola un elemento dal contesto e si crea una modello per giustificare una prassi, anche se i dati confermano l’esatto contrario: un immigrato ha fatto una rapina-tutti gli immigrati sono criminali. Le analisi delle autorità regolatorie del farmaco hanno confermato un potenziale collegamento tra la miocardite e la pericardite quali eventi avversi dopo la somministrazione di vaccini a mRNA. Ursula von der Leyen e la Commissione Europea sono stati condannati dalla corte di giustizia dell’Unione Europea per mancanza di trasparenza durante l’acquisto di vaccini anti-Covid nel luglio 2024. Non è quindi del tutto folle chiedersi dove stia l’interesse nel fornire notizie inappropriate pur di ottenere consenso e compensi economici sulla pelle della popolazione.

Tuttavia, per quanto possa essere legittimo nutrire il sospetto, questo non è sufficiente per rinunciare alle uniche soluzioni medico-sanitarie adottate per contrastare tempestivamente la diffusione del virus e tutelare la salute pubblica. È inoltre necessario considerare che la verità è venuta a galla proprio grazie ai comitati scientifici di sorveglianza sul farmaco. Questo potrebbe ricordare a tutti che le attività interne di ogni governo e di ogni scelta politica non si basano su decisioni istintive, ma sul calcolo dell’utilità e che le considerazioni politiche hanno una logica intrinseca che va sciolta con il ragionamento, non solo con il cuore o con le sensazioni.

Trascendere la sensazione significa porre una distanza dal dato percettivo per creare un modello linguistico, culturale o scientifico con il quale negoziare le condizioni di verità.

Quindi, se si vuole dissentire o contrastare qualcosa che si ritiene ingiusto o sospetto è necessario opporvi quantomeno lo stesso grado di razionalità. È infatti solo sospendendo la reazione alla sensazione che è possibile costruire un’alternativa capace di spiegare ciò che non si può immediatamente capire o percepire. Trascendere la sensazione significa porre una distanza dal dato percettivo per creare un modello linguistico, culturale o scientifico con il quale negoziare le condizioni di verità. Questo processo consente di organizzare un sistema di conoscenza nel quale il succedersi degli argomenti chiarisce progressivamente l’intero contenuto, per avvicinarsi il più possibile a una oggettività dalla quale derivare scelte consapevoli, approfondite e informate.

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Su questa dinamica razionale si basano le istituzioni. Le istituzioni sono fondate sulla rinuncia alla particolarità per creare universali di senso basati su criteri di verità condivisi. Consistono nell’organizzazione dei mezzi collettivi per soddisfare bisogni personali. La scienza è un’istituzione nel momento in cui organizza i mezzi della conoscenza per soddisfare bisogni di scoperta, di comodità e di sopravvivenza. Il bisogno di mangiare genera l’istituzione del lavoro e dell’industria come organizzazione di competenze e strumenti per nutrirsi. “Bisogno” e “istituzione” camminano insieme. Se viene meno l’“istituzione” come entità di mediazione collettiva, rimane solo l’“istinto” immediato e la convinzione soggettiva di poter rispondere singolarmente ai bisogni, quando invece possono essere soddisfatti solo collettivamente e istituzionalmente.

La prevalenza della sensazionalità sulla razionalità chiude l’agire di ognuno in un percorso in linea retta che deve condurre istantaneamente, senza scelta e senza ambiguità, all’oggetto di soddisfazione, alla conoscenza, generando una pericolosa autoreferenzialità incapace di costruire comunità. Oggi le istituzioni politiche e dell’informazione, oltre ad aver perso la fiducia delle persone, non vengono percepite come un ambiente all’interno del quale trovare risposte collettive a bisogni personali ma come un intralcio all’attività di acquisizione dell’informazione, delle risorse finanziarie o del potere politico.

Le informazioni che bypassano l’intermediazione giornalistica, specialistica e istituzionale, condividono con la politica sia la tendenza alla semplificazione, sia una volontà di individualizzazione del potere con la quale ottenere una maggiore libertà esecutiva. Così come la comunicazione punta alla produzione di figure singolari che emergono dai social per influenzare e monopolizzare l’attenzione su aspetti commerciali, minimizzando lo sforzo dell’apprendimento, ugualmente la politica tende a snellire i processi costituzionali per favorire, ad esempio, l’accentramento dei poteri parlamentari. Una piattaforma che soddisfa istantaneamente il desiderio di sapere dei suoi utenti, senza richiedere ulteriori speculazioni, è reputata più sostenibile rispetto a un’altra che invita a fermarsi per riflettere. La politica che libera ogni genere di attività economica dalle briglie della burocrazia o dell’etica risulta più feconda di un’altra che tiene in conto i vincoli ambientali o la salute delle persone.

Un mondo dove tutti sono persuasi dall’idea di poter compiere scelte basate sulla libertà individuale nel produrre e consumare informazioni, non ha bisogno di partiti, comunità, chiese, sindacati e specialisti per capire quale direzione intraprendere e a chi delegare il futuro o la difesa dei propri diritti.

L’immediatezza delle informazioni prive di filtri specialistici garantisce una trasmissione più efficace del potere rispetto ad articolate analisi del contesto che rallenterebbero la produzione del consenso e la messa in opera di programmi e strategie di engagement. La delega e la rappresentanza non sono più quindi dei paradigmi utili per un qualsiasi tipo di potere che aspira all’esclusività. Se dal punto di vista governativo non possiamo però ancora parlare di un vero e proprio rischio democratico, perché i governi occidentali, comprese le democrazie presidenziali, sono eletti all’interno di un sistema di contrappesi e di misure volto a impedire abusi di potere e ascese incontrollate di leader politici, dal punto di vista della comunicazione il discorso potrebbe farsi preoccupante, perché la comunicazione è lo strumento principale attraverso il quale l’attività politica costruisce il proprio consenso; e se l’unico vero potere di un presidente in una democrazia presidenziale è quello di avere in mano la gestione di un’opinione pubblica formata da singoli individui che prendono decisioni autonome sulla base delle sensazioni piuttosto che del ragionamento, l’uso di un’informazione priva di intermediari specializzati può generare una legittimità tale da cambiare ogni assetto costituzionale.

L’ideologia alla base di questo processo celebra l’empowerment individuale riflettendo l’idea che il controllo dei media stia passando nelle mani dei singoli piuttosto che restare in quelle delle istituzioni o dei professionisti. Un mondo del genere, dove tutti sono persuasi dall’idea di poter compiere delle scelte basate sulla libertà individuale nel produrre e consumare informazioni, non ha bisogno di partiti, comunità, chiese, sindacati e specialisti per capire quale direzione intraprendere e a chi delegare il futuro o la difesa dei propri diritti. Oggi infatti, la forma di governo “migliore” non è la democrazia parlamentare e rappresentativa, ma la democrazia diretta, la democrazia non mediata, cioè quel tipo di democrazia che consente ai singoli di decidere, facendogli credere di avere libertà, saperi e poteri reali che rendono superflua la rappresentanza, le istituzioni, l’intermediazione specialistica o intellettuale. La democrazia, insomma, dell’uno vale uno. Ed è per questo che Elon Musk può festeggiare la vittoria di Trump postando a gran voce “Media is you” su un social network di sua proprietà.

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