Ma se Giorgia Meloni è tanto amica di Donald Trump, perché i primi europei ricevuti alla Casa Bianca sono, oggi e domani, il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Keir Starmer? La risposta è banale: perché Francia e Regno Unito sono potenze nucleari, l’Italia no. Nella politica internazionale contano anche i profili umani, e la vicinanza politica fra gli interlocutori può aiutare. Ma, alla fine, pesano soprattutto i fattori strutturali: geografia, demografia, economia, valori, interessi, armi. Se vogliamo comprendere come l’Italia abbia attraversato i tre anni di guerra in Ucraina, allora, è dalla struttura della Penisola che dobbiamo partire.
La quale struttura, inutile girarci intorno, è fragile. Più ancora che per le sue debolezze oggettive – che pure non mancano, dalla catastrofe demografica alla stagnazione economica al debito pubblico –, l’Italia è fragile perché gode nel pensarsi tale. Gli italiani prendono atto dell’innegabile privilegio di non giacere su nessuna delle faglie di conflitto primarie della nostra epoca: quella che attraversa il Vecchio Continente lungo l’asse storico Germania-Russia, quella che corre da Israele all’Iran, tanto meno quelle dell’Artico o del lontanissimo Oceano Pacifico. La Penisola, certo, è al centro delle tensioni mediterranee, ma l’Africa è troppo destrutturata perché quelle tensioni superino un certo limite – almeno per il momento. Gli italiani prendono atto di non essere su nessuna faglia, dicevo, e ne approfittano per convincersi che questi conflitti non li riguardino, che tutti si disinteressino di loro e loro possano disinteressarsi di tutti. Con scarsa clemenza patriottica, potremmo chiamare questa convinzione «strategia dell’opossum»: più il mondo si fa pericoloso, più ci si finge morti. Con un retropensiero talvolta ecumenico e pacifista, più spesso cinico e furbesco.
Il lettore vuole una dimostrazione di ciò? Dia un’occhiata alla ricerca demoscopica sull’opinione pubblica transatlantica e l’Ucraina che l’Aspen Institute Italia e il Laboratorio di analisi politiche e sociali dell’Università di Siena hanno pubblicato meno di un anno fa, e che può esser scaricata dal sito dell’Aspen. Pagina 9: il 17% degli italiani ritiene che le spese militari vadano aumentate, il 31 che vadano diminuite. In Francia il 41% pensa che debbano crescere, solo il 12 che debbano calare; negli Stati Uniti, il 43 e il 13; nel Regno Unito addirittura il 50 e il 7. E perfino in Germania, il Paese che come il nostro è uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, sono il 44 e il 15. Tutti hanno preso atto dell’aria che tira, tranne noi opossum italici che ci fingiamo morti.
Questo atteggiamento, che non nasce certo oggi, ha reso la sicurezza italiana ancor più dipendente dagli alleati di quanto lo sarebbe stata in ogni caso, considerate le dimensioni del Paese e l’assenza di armi nucleari. E ha reso vieppiù urgente, di conseguenza, il tema delle alleanze: dipendenti sì, ma da chi? La risposta a questa domanda è stata molto chiara fin dall’immediato dopoguerra: dagli Stati Uniti, nel quadro dell’Alleanza atlantica. Nei decenni questa risposta si è poi venuta intrecciando col sogno dell’autonomia strategica europea. Dal fallimento della Comunità di difesa in avanti, nel lontano 1954, quel sogno finora ha mancato di concretizzarsi. E troppo spesso è apparso una copertura per le velleità egemoniche francesi – rispetto alle quali ha sempre pesato quel che all’inizio degli anni Sessanta l’ambasciatore Roberto Ducci ebbe a dire con machiavellica chiarezza all’allora ministro degli esteri Attilio Piccioni, di fronte al Piano Fouchet proposto dal generale De Gaulle: un padrone ricco e lontano è molto meglio di uno povero e vicino. La sempre più profonda integrazione del Vecchio Continente, d’altra parte, ha generato una linea di tensione potenziale fra la dimensione securitaria europea e quella atlantica.
Questa lunga premessa contribuisce a spiegare il comportamento italiano di fronte all’aggressione russa di tre anni fa. Malgrado la tentazione di fingersi morti sia stata alquanto robusta nell’opinione pubblica italiana e sia stata alimentata da forze politiche non irrilevanti, la convinta convergenza fra Stati Uniti e Unione europea in difesa dell’Ucraina ha reso quella della Penisola una posizione pressoché obbligata. Non per caso, quella posizione non si è modificata di una virgola nel passaggio, a Palazzo Chigi, da Mario Draghi a Giorgia Meloni. Per quanto, paradossalmente, i due presidenti del Consiglio l’abbiano adottata a partire da sistemi valoriali diversi e a tratti opposti: multilateralismo liberale nel primo caso, sovranità nazionale e sua inviolabilità nel secondo.
La vera cesura interviene adesso, e non per caso è il frutto non di un cambiamento politico interno ma di una sfida esogena. Per le ragioni appena illustrate questa sfida, drammatica per tutti, per l’Italia lo è più ancora che per i suoi vicini d’oltralpe. Per quelle medesime ragioni, l’interesse nazionale spinge la Penisola a cercar di evitare, per quanto possibile, che l’Atlantico settentrionale si allarghi troppo e che il conflitto fra le due sponde si cristallizzi e radicalizzi. È la strategia che sta seguendo il governo e che a mio avviso – al netto negli accenti, i quali pure contano – seguirebbe in buona sostanza qualsiasi altro governo italiano con la testa sulle spalle, di qualunque colore esso fosse. Non c’è dubbio che molti dei segnali giunti dall’amministrazione Trump, oltre a essere odiosi nella forma, non facciano affatto ben sperare. La confusione però è grande, tanti altri segnali puntano in direzioni differenti, la partita rimane del tutto aperta e avrà, con ogni evidenza, un andamento assai lungo e tortuoso. Date queste premesse, un conto è prepararsi al peggio, tutt’altro alimentare, cedendo magari all’anti-trumpismo apocalittico, l’isteria e l’entropia del dibattito pubblico.
Sia ben chiaro: questo non vuol essere un inno alla viltà o al vassallaggio, di certo non una celebrazione della strategia dell’opossum, e meno ancora un argomento contrario a una sempre più stretta cooperazione europea in materia di difesa e sicurezza. Al contrario: è urgentissimo che l’Italia si renda conto di non potersi continuare a finger morta e di dover rientrare nella storia. Vuole però essere un appello al realismo, alla lucidità e alla responsabilità, nel momento più pericoloso per il Pianeta dalla fine della Guerra Fredda.
gorsina@luiss.it
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