In questo fine mese, a tre anni dalla guerra di aggressione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, e dagli sviluppi negativi e preoccupanti che abbiamo davanti, le stragi di innocenti a Gaza, l’arrivo di Trump e tutto il resto era scontato che parlassimo della necessità di costruire la pace. Lo abbiamo fatto con continuità attraverso il racconto dei profili di donne e dei loro scritti. Lo facciamo oggi in modo inedito. Adriana Chemello ci racconta una bella storia che ha alcuni fuochi:
Monteleone di Puglia, una piccola città (nemmeno mille abitanti) che mi ha fatto pensare alle “città invisibili” di Italo Calvino: non quelle reali ma immaginarie e desiderabili. Con una storia importante.
Un premio “per la pace e la nonviolenza” promosso da questa città (e che è alla sua decima celebrazione). È dedicato alle donne in memoria delle “Monteleonesse”, al loro impegno fin dal 1563 contro le persecuzioni valdesi, l’inquisizione: per la libertà di religione; protagoniste, nel 1942, di un primo germoglio di “Resistenza” al fascismo con la lotta delle Monteleonesse per il pane (lo racconta, valorizzandolo, Adriana Chemello). Il premio viene assegnato nella giornata internazionale delle donne,
l’8 marzo, una data d’impegno per la libertà di tutte le donne, contro guerre e violenze. Questa esperienza decennale di Monteleone è significativa e si può esportare anche in comuni piccoli che sono tanti nel nostro Paese. Piccoli grandi progetti possono contribuire a trasformare l’ordine della forza e del dominio che genera guerra violenza e morte nell’ordine dell’amore, della cura e dell’accoglienza che genera vita. Come città virtuosa, Monteleone, è stata insignita di diversi premi internazionali come l’UNESCO, il Parlamento Europeo e l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR). Significativamente il primo premio, 8 marzo 2016, è stato assegnato a suor Rita Giaretta per il suo straordinario impegno contro la violenza sulle donne e in particolare contro la “tratta delle donne” avviate alla prostituzione attraverso organizzazioni violente criminali mafiose e camorristiche nella “terra dei fuochi” e non solo. La comunità che ha avviato si chiama “casa di Rut”. La storia di Rut, personaggio biblico, è storia d’amore. Amore che supera ogni differenza di razza, di gente, di costume, di tradizione. Suor Rita Giaretta proprio nel 2016 ha incontrato Papa Francesco a Santa Marta. Gli aveva anche scritto una lettera chiamandolo affettuosamente papà invece che Papa. Ce lo ha raccontato proprio lei, in una bella serata, a Valdagno nel novembre 2017.
“Caro papà Francesco, fra le tante ‘rivoluzioni’ che sei chiamato a portare avanti credo che questa è una delle sfide più importanti e necessarie: liberare il volto della chiesa dalla sua schiavitù maschile. …da quell’immagine che sa di autorità, privilegio, potere sacrale, dominio e restituirle il volto bello, luminoso e trasparente di Dio madre e padre;… A quando questa rivoluzione? Noi donne, con te Francesco, siamo pronte a metterci la faccia e a “svegliare il mondo…”
Si tratta solo di uno stralcio di quella lettera. Lo inviamo idealmente a Papa Francesco, insieme a un pensiero affettuoso di gratitudine e di vicinanza.
MGG
Dalla parte delle donne e della pace
di Adriana Chemello
Dedichiamo lo spazio della rubrica «Dalla parte di lei» di questo mese di febbraio non tanto ad una figura di donna bensì ad un “Premio” dedicato alle donne. Ma prima ve ne raccontiamo un po’ la storia.
Adagiato tra i Monti Dauni, verso il confine tra la provincia di Foggia e l’Irpinia, si trova il comune di Monteleone di Puglia, con un migliaio di abitanti, a 842 metri di altitudine, all’incrocio delle strade che collegano la Puglia e la Campania. Le cronache locali raccontano che la prima comunità di Monteleone si è venuta aggregando attorno ad un nucleo di Valdesi fuggiti dalla Provenza e denominati “i poveri di Lione”, da cui poi il nome della località. La piccola comunità aderì nel xvi secolo alla Riforma protestante e per questo venne repressa con durezza. Già nel 1563 le donne valdesi mostrarono il loro coraggio opponendo una tenace resistenza all’Inquisizione, in difesa della libertà di religione e del primato della legge morale.
Il paese ha saputo proporsi, negli ultimi anni, con iniziative sociali e culturali fondate sulla solidarietà e sull’inclusione, connotandosi come il paese dell’accoglienza, della pace e della nonviolenza, Da una decina d’anni, il comune si è fatto promotore, nelle scuole del comprensorio, di progetti di educazione alla pace in collaborazione con l’UNESCO, favorendo l’istituzione di una cattedra UNESCO per la pace, il dialogo interculturale e lo sviluppo sostenibile nel Mediterraneo, in partenariato con le Università di Messina e di Valencia in Spagna. Insieme alla Cattedra Unesco, ha avviato con propri finanziamenti la realizzazione in Mali di un Centro antiviolenza a sostegno delle donne africane.
Dal 2016 ha istituito un “Premio per la pace e la nonviolenza” da attribuire per l’8 marzo, festa della donna, come pubblico riconoscimento a donne distintesi per l’impegno a favore della pace e della nonviolenza.
Nasce spontaneo chiedersi perché un “Premio per la pace”, dedicato alle donne, proprio a Monteleone di Puglia? La risposta la troviamo volgendo lo sguardo indietro nel tempo: più di ottant’anni fa, il 23 agosto 1942, Monteleone è stato teatro di una protesta popolare in cui furono protagoniste soprattutto le donne del paese, passata alla storia come la “rivolta del grano”.
Di questa ribellione popolare, scrupolosamente censurata dalla stampa italiana, diede invece notizia al mondo “Radio Londra”, segnalandola come indizio di una avversione al fascismo serpeggiante tra gli strati popolari.
All’origine della rivolta ci fu un atteggiamento vessatorio e disumano del comandante dei carabinieri del paese che decise di sequestrare le “pignatte” (pentole) di granoturco alle donne che erano in fila davanti al forno. Non solo le pignatte furono sequestrate, ma con disprezzo e in modo provocatorio furono rese inservibili e le granaglie in esse contenute brutalmente calpestate. Questa la scintilla che fece scoppiare la protesta delle donne al grido: «Vogliamo il pane – vogliamo sfarinare». Erano anni in cui l’economia di guerra aveva razionato tutti i generi di prima necessità a partire dai cereali, che erano la base dell’alimentazione dei poveri. Le granaglie contenute nelle pentole sequestrate erano il frutto di sacrifici e di astinenze delle donne per poter sfamare i loro figli. Poiché il grano veniva requisito per legge e portato all’ammasso, le donne erano costrette a nutrirsi con il mais o granoturco. L’arroganza dei militari che andava ad affamare ancora di più la povera gente, soprattutto le donne già provate dalla miseria e dalla sottrazione di braccia valide per lavorare la terra, provocò la sommossa di tutto il paese. Ma la rivolta popolare capeggiata dalle donne, che rivendicavano il diritto alla vita e la loro avversità alla guerra («Abbasso la guerra! Ridateci i nostri figli! Ridateci i nostri mariti!»), venne repressa con rastrellamenti fin dentro le case e nelle campagne circostanti. Nella vicenda si distinse per arroganza e autoritarismo il Potestà, che era il farmacista del paese, Trombetti che apostrofò così le donne: «mangiatevi le pietre, questa è la legge».
Ben 96 persone (tra cui molte donne e alcuni ragazzi minorenni) vennero arrestate e condotte nelle carceri di Lucera, Bovino, San Severo e della Capitanata. Il 3 settembre 1943, sebbene nel frattempo il fascismo fosse caduto e Mussolini arrestato, il sostituto procuratore del Re rinviò a giudizio novantuno imputati e ne fece arrestare altri, con accuse risibili: aver rubato un paio di scarpe, aver schiaffeggiato un carabiniere, essersi impossessato di un timbro. Solo il 27 e 28 ottobre 1943, con l’arrivo delle forze alleate provenienti da Sud, le porte del carcere vennero aperte, dopo ben quattordici mesi di detenzione. Nel frattempo due donne erano morte in carcere di tubercolosi e di malaria; una bimba di pochi mesi era morta di stenti nel carcere di Lucera; una donna detenuta aveva partorito in una cella del carcere, in condizioni igieniche che possiamo immaginare e senza nessuna assistenza. Il calvario delle persone incarcerate si protrasse anche a guerra finita: con la sentenza del 25 giugno 1946 furono tutte rinviate a giudizio con pene molto pesanti, senza tener conto dell’amnistia del 27 novembre 1945, concessa dal governo Parri, e dell’amnistia del 23 giugno 1946 decisa dal governo De Gasperi (entrambi i provvedimenti proposti dal ministro della giustizia Palmiro Togliatti).
Dovettero passare ancora quattro anni prima che, con la sentenza del 9 giugno del 1950, la Corte d’Assise di Lucera dichiarasse il non luogo a «procedere per i reati contestati», accogliendo in pieno la richiesta di applicazione dell’amnistia del novembre 1945. A salvare le donne di Monteleone era stata l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti, per pacificare l’Italia, ma che di fatto rimise in circolazione molti fascisti.
La lunga carcerazione ebbe conseguenze pesanti soprattutto per le donne che, dopo aver patito la fame ed aver subito gli orrori della guerra si trovarono umiliate da un processo assurdo e insensato. Molte di loro scelsero di emigrare lontano dai luoghi a cui erano legati ricordi così dolorosi. Allontanatesi le protagoniste della vicenda, il paese tutto fece ogni sforzo per rimuovere e per seppellire nell’oblio il ricordo dei fatti dolorosi dell’estate 1942. E in parte sembrava esserci riuscito.
La storia delle donne di Monteleone è stata di recente ricostruita, con una ricca documentazione, grazie alle ricerche di Vito Antonio Leuzzi, nel libro Donne contro la guerra. La rivolta di Monteleone di Puglia (Edizioni del Sud 2004). A quelle donne coraggiose che più di ottant’anni fa si ribellarono alle prevaricazioni fasciste, gridando «Abbasso la guerra», il comune di Monteleone ha voluto dedicare il Premio per la pace e la nonviolenza istituito nel 2016. Si è voluto in questo modo creare un filo simbolico capace di legare (collegare) le protagoniste della rivolta con altre donne coraggiose e intraprendenti a noi più vicine nel tempo. Una felice intuizione, quella degli amministratori locali di Monteleone, di collegare e di rendere visibile un continuum femminile, una “genealogia” ideale in grado di lanciare un ponte tra ieri e oggi.
Dedicare il premio per la pace e la nonviolenza alle donne che nell’agosto del 1942 si opposero alle prevaricazioni del regime fascista, rivendicando il diritto alla vita, alla libertà e alla giustizia per sé e i propri figli, affermando così la loro dignità di donne, significa riconoscere e riportare alla luce quei fili che si dipanano, si avvolgono, si intrecciano, creando contiguità e continuità tra tante figure di donne, spesso oscurate, rese opache e invisibili da una storiografia che ha intenzionalmente trascurato la declinazione femminile della storia.
Così procedendo per indizi, per labili tracce si scoprono analogie e parallelismi, figure inedite e impreviste in grado di dar forma ad un grande ed affascinante mosaico. Il processo avviato da qualche decennio, grazie al rilevante contributo degli studi delle donne, mira a ricostruire la storia con voci e prospettive plurime, dando spazio e voce a chi era rimasto finora fuori dalla storia, non ultimo un pacifismo e un antimilitarismo di origine femminile.
Prima che Lidia Menapace lanciasse negli anni ’80 il famoso slogan «Fuori la guerra dalla storia» era già individuabile una genealogia di donne d’intelletto e d’azione che, passando attraverso diverse generazioni, arrivano fino ai giorni nostri. Si tratta di riscoprirle, rileggerle, assumerle a «madri simboliche» del nostro presente. Pensiamo a Bertha von Suttner e al suo romanzo Abbasso le armi!, alla vicenda di Maria Occhipinti la cui protratta detenzione fu molto simile a quella delle donne di Monteleone.
Nel manipolo di donne a cui dal 2016 è stato conferito il premio per il loro impegno per la pace e la nonviolenza troviamo la figlia minore di Martin Luther King, Bernice Albertine King, nel 2018; mentre nel 2024 è stata premiata la giornalista romagnola Linda Maggiori, scrittrice e autrice del libro Mamme ribelli, «per il suo impegno civico coerente e coraggioso in difesa della verità, senza mai lasciarsi intimidire o irretire dalle sirene della politica. […] Non rinuncia mai a denunciare gli scempi contro la natura, il taglio immotivato di alberi, le discariche abusive, i disastri ambientali annunciati, anche a costo di essere irrisa e dileggiata».
Nel ricevere il premio, Linda Maggioni ha dichiarato: «Dedico questo premio a tutte le donne che dal nord al sud Italia si stanno impegnando per la pace e l’ecologia anche a costo di gravi ripercussioni personali, che si scontrano con l’omertà istituzionale e le prepotenze a tutti i livelli, per dare una vita degna a bambine, bambini e a tutte le creature. Sono convinta che le donne possano davvero fare la differenza e risollevare le sorti di questo mondo alla deriva».
Il prossimo 8 marzo, il Comune di Monteleone e la Regione Puglia conferiranno il Premio di donna per la pace e la nonviolenza alla dott.ssa Lucia Capuzzi, giornalista che lavora alla sezione “esteri” del quotidiano «Avvenire» e alla dott.ssa Khady Sene, direttrice della Caritas della Diocesi di Foggia-Bovino.
Il premio a Lucia Capuzzi – si legge nel comunicato ufficiale – «è un riconoscimento al suo instancabile e sincero impegno di giornalista di pace, sensibile al ruolo svolto dalle donne in aree di guerra per mitigare la violenza e avviare processi di dialogo tra le parti in conflitto e di riconciliazione». Khady Sene – si sottolinea – «si è distinta nel campo dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, prima donna, immigrata senegalese, a divenire direttrice di una Caritas diocesana».
Lucia Capuzzi, prima di approdare al quotidiano «Avvenire», ha lavorato per Tg – Leonardo della Rai. Ha vinto diversi premi per i suoi reportage dedicati soprattutto all’America Latina: il Premio Internazionale Lucchetta (2014) per un articolo sui baby lavoratori boliviani, il Premio “Colombe della Pace” istituito dall’Archivio Disarmo (2016), il premio “Giornalisti del Mediterraneo” (2018), il Premio Parise (2018), e il Premio De Carli per l’informazione religiosa (2020).
Sulle colonne dell’«Avvenire» e sul sito web, assieme alle colleghe Viviana Daloiso e Antonella Mariani, Lucia Capuzzi dall’8 marzo scorso ha costruito un percorso dedicato alle «Donne per la pace», proponendo testimonianze di una ventina di donne che hanno espresso un impegno per far progredire una cultura di pace nelle realtà in cui vivono. Il progetto «Donne per la pace» è stato dedicato a Vivien Silver, pacifista israeliana uccisa durante l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023. Facendo proprie le parole di papa Francesco secondo cui «il mondo ha bisogno di guardare alle donne per trovare la pace, per uscire dalle spirali della violenza e dell’odio, e tornare ad avere sguardi umani e cuori che vedono», le tre redattrici hanno ribadito che non si tratta di far entrare le donne «nella stanza dei bottoni», bensì di «spezzare l’ingranaggio di cui ogni guerra si alimenta»: l’ostentazione di forza, la tensione a possedere l’altro e ad annientare l’avversario. A fronte di ciò le donne devono farsi ideatrici di «una resistenza creativa» perché «se gli uomini possono vincere o perdere la guerra, alle donne è rimasta una sola opzione: vincere la pace». Tra le voci di donne che raccontano e si raccontano, troviamo Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003, la prima iraniana e la prima donna musulmana a ottenere questo riconoscimento; Nadia Murad, giovane curda di etnia yazida, premio Nobel per la pace nel 2018, fondatrice di un’organizzazione no-profit per la ricostruzione di comunità in crisi e in difesa delle vittime della violenza sessuale; la giornalista filippina Maria Ressa, premio Nobel per la pace nel 2021; le negoziatrici in processi di pace come la nordirlandese Monica Mc Williams e la filippina Miriam Coronel Ferrer, fino alla attivista iraniana per i diritti umani e Nobel per la pace nel 2023, Nargesd Mohammadi. Una costellazione di voci femminili che hanno costruito «attività più onorevoli della guerra» e che pertanto rappresentano esempi luminosi su cui si può costruire una cultura di pace.
Abbiamo chiesto a Lucia Capuzzi a chi avrebbe dedicato questo premio, ci ha risposto così: «Credo che dedicherò il premio alle donne afghane… Mi sento molto onorata e inadeguata. Vivo questo riconoscimento come sprone a impegnarmi ogni giorno a costruire frammenti, pur minuscoli, di pace».
A Khady Sene, chiamata da pochi mesi dal vescovo di Foggia a dirigere la Caritas diocesana, abbiamo chiesto di condividere con noi le sue emozioni per questo riconoscimento. Ecco la sua testimonianza: «la mia storia e il mio percorso di vita sono stati ed è tuttora un lungo cammino. Sono arrivata in Italia nel 2013 con la speranza di poter continuare gli studi universitari, ma così non è stato. Non mi sono mai arresa, perché per me il pensiero di raggiungere i miei obiettivi era più forte degli ostacoli che ho incontrato lungo questo percorso. Ho fatto diversi lavori, ma ho sempre sentito il bisogno di donarmi all’altro, aiutare l’altro e, in qualche modo, essere una sentinella di pace. La pace, nelle sue varie forme, rappresenta tutto per me. E prima di essere una sentinella di pace e di seminare, ho fatto un lavoro interiore per me stessa. Il mio impegno in Caritas è l’esperienza più bella della mia vita; per me non si è mai trattato di lavoro, ma di una missione, un disegno di Dio, una scelta di vita quella di stare a fianco agli ultimi. Da volontaria sono passata a operatrice Caritas, occupandomi dei migranti che vivono in condizioni difficili nei ghetti, delle donne vittime di tratta e di violenza, e cercando sempre di interloquire con le istituzioni per garantire il rispetto dei diritti delle persone indigenti. Dopo anni di lotta, sensibilizzazione e supporto per una cittadinanza più attiva e consapevole, soprattutto tra i giovani, e di collaborazione continua con le istituzioni, a settembre 2024 arriva una svolta nella mia vita, sia professionale sia personale. Diventare direttrice della Caritas Diocesana di Foggia-Bovino è un onore per me, e ringrazio S. Ecc. Rev.ma Mons. Giorgio Ferretti per questa fiducia e stima nei miei confronti. Molte cose belle sono accadute in questi mesi e una di queste è proprio il riconoscimento di questo importantissimo premio. Sono orgogliosa di riceverlo e non è un premio solo mio, ma di tutte e tutti gli operatori Caritas, tutti gli operatori umanitari sparsi nel mondo, che hanno scelto di non essere indifferenti e che ogni singolo giorno ridanno speranza a chi l’ha persa. Questo premio significa molto per me; la pace e la speranza sono due parole che per me hanno e significano moltissimo. Ringrazio il Comune di Monteleone, in nome del Sindaco Campese, le varie commissioni e tutti i membri organizzativi di questo evento internazionale. Questo premio lo dedico anche alla persona che da sempre mi ha inculcato i valori fondamentali della vita, mia mamma. Lei si è sempre battuta per la pace, e quindi posso dire che, in qualche modo, sto portando avanti quello che era il suo operato».
La dedica di Khady Sene a sua madre e quella di Lucia Capuzzi alle donne afgane ci riportano a quel continuum femminile che il Premio per la pace e la nonviolenza del comune di Monteleone ha voluto a sua volta riportare alla ribalta, sottraendolo all’oblio e all’opacità. Storie di corpi di donne che s’intrecciano a pensieri e ad azioni di pace e di nonviolenza nel segno dell’inclusione, pur nell’alterità e diversità spazio-temporale del loro essere nel mondo di ieri e di oggi.
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