L’ex ciclista, vincitore del Giro d’Italia nel 2006 e nel 2010, si è raccontato a cuore aperto nel corso di un’intervista
Ivan Basso, vincitore del Giro d’Italia nel 2006 e nel 2010, si è raccontato a cuore aperto nel corso di un’intervista concessa al Corriere della Sera: “Contattai un medico spagnolo specializzato in trasfusioni…“.
“Ovviamente sì. A Madrid mi feci prelevare due sacche di sangue che poi mi sarei fatto iniettare prima del Tour per avere globuli rossi più freschi e andare più forte. Ma in un’operazione investigativa della polizia spagnola trovarono le sacche congelate, mie e di altri, e associandole al Dna nelle banche dati della federazione mi identificarono“.
“Desiderio sfrenato, incontrollabile di vincere tutto. E consapevolezza che con quel metodo avrei potuto realizzare il sogno. Ero cresciuto in quel modo e nulla avrebbe potuto fermarmi, sapevo cosa stava succedendo ma non volevo rendermene conto. Pensavo di essere nel giusto“.
Quindi lei non si è mai dopato?
“Non ho fatto in tempo. Ma so cos’ho fatto, riconosco le mie colpe, e mi vergogno. Ma ci sono motivazioni più profonde in quello che ho fatto“.
“Come quasi tutti all’epoca, non ero educato all’etica della vittoria e della sconfitta, anzi non avevo nessuna etica. Non pensavo certo di essere nel giusto, ma mettevo davanti al giusto ma anche alla mia famiglia la voglia sfrenata di vincere. Per questo oggi l’etica è la prima cosa che cerco nei miei corridori“.
Nel luglio del 2006, due giorni prima della partenza del Tour de France, gli organizzatori la cacciarono dall’albergo di Strasburgo dove era in ritiro con la squadra.
“Scappai da una porta di servizio e cominciò una caduta inesorabile ma lentissima. A fine estate tornai a correre per qualche mese fino a quando non emersero prove certe e mi trovai davanti — l’anno successivo — ad Ettore Torri, l’ex capo della procura di Roma prestato all’antidoping“.
“All’inizio negai tutto ostinatamente. Poi lui trovò le parole giuste o meglio mi portò allo sfinimento. Ammisi ogni colpa, concordai un lungo periodo di squalifica. Torri era un duro ma pieno di umanità. Quando firmai la confessione mi disse: “Basso, un giorno lei capirà di non aver bisogno di queste porcherie”. Parole ripetute tre anni dopo, e non più in un tribunale“.
“Sul palco dell’Arena di Verona nel momento in cui vinsi il mio secondo Giro d’Italia. C’erano mia moglie, i miei figli, c’era Aldo Sassi, lo scienziato dello sport che fu l’unico a prendermi per mano e a guidarmi durante la squalifica. E si presentò anche Torri, il cacciatore di dopati. Mi disse: “Visto che avevo ragione?”. Essere coinvolto, smascherato in quell’operazione è stata la cosa più importante della mia vita“.
Cos’è il Giro d’Italia che lei ha vinto due volte?
“È tutto. Averlo riconquistato all’Arena come Moser nel 1984, esserci riuscito dopo quello che era accaduto, è stato favoloso. Ma la felicità di un successo dura un lampo. Ero uscito dal circolo del doping, non da quello che mi incatenava alla mia prima vita“.
“Nel luglio 2015 sto disputando il Tour del France, a quel punto come gregario di Alberto Contador. Durante la tappa di Pau cado malamente. In ospedale con la Tac mi trovano un tumore ai testicoli in stato avanzato, da operare subito. Senza quell’incidente forse l’avrei scoperto troppo tardi. In quello stesso luogo, undici anni prima, un medico amico mi aveva telefonato dicendo che il tumore al pancreas di cui soffriva mia madre era allo stato terminale. Ho rivisto la mia vita, ho realizzato che un capitolo si stava chiudendo“.
Lo stesso destino di Lance Armstrong, il Grande Bugiardo.
“Lance per me è l’uomo che — sopravvissuto a un tumore — inviò a sue spese un medico in Italia per provare a curare mia madre. Lascio agli altri il giudizio sulle sue bugie e sul suo doping, per me ha fatto una cosa enorme“.
La «morte sportiva», il ritiro, è difficile da accettare?
“Arriva lentamente. Per trent’anni ho corso in apnea, cieco e sordo: non vedevo le montagne, non sentivo il tifo, pensavo solo a vincere. A un certo punto mi sono accorto che percepivo nitide delle voci, quelle di chi gridava “Dai Ivan che davanti non sono lontani, li puoi ancora prendere”. Da inseguito ero diventato inseguitore. Sentivo gli applausi dei bambini davanti alle scuole e pensavo ai miei, di bambini, che in quel momento erano a lezione. Così ho capito che ero al capolinea, che dovevo ricominciare una nuova vita. Non avevo valutato che sarebbe stato così difficile“.
“Non si spegne una carriera con l’interruttore. Mi sono buttato nell’avventura della squadra a capofitto, con ritmi più serrati di quelli di prima, con il mio vecchio compagno Alberto Contador. Invece degli allenamenti e dei ritiri c’erano viaggi di lavoro, riunioni, contatti con gli sponsor. Prima avevo un team che mi supportava, adesso ero io il supporto. Poi è saltato tutto“.
“Con mia moglie da anni abbiamo in piedi un’azienda agricola, nel Varesotto: coltiviamo mirtilli. L’anno scorso Micaela di punto in bianco mi chiese di sedermi sotto il pergolato e cominciò a parlarmi. È andata avanti due ore, rovesciando la mia e la sua vita senza mai umiliarmi. Alla fine era tutto chiarissimo“.
“Il mio fallimento come padre e marito. I miei quasi quarant’anni in apnea, le mie mancanze, i miei tradimenti ai doveri della famiglia, la scomparsa di ogni intimità tra me e lei. Ho capito che non avevo mai spento l’interruttore, che ero ancora l’atleta miope, ossessionato dalla voglia di successo che non vedeva altro nella vita. È stato profondo, violento, terapeutico. Ho ucciso l’Ivan Basso atleta e tirato fuori finalmente l’uomo“.
“Mio figlio Santiago è appena passato professionista. Fa il mio stesso mestiere, non veste la maglia della mia squadra, non lo alleno io, si farà strada da solo se ne ha i mezzi. Io e Micaela proviamo gioia pensando che lui lavora in un mondo molto più etico di quello in cui vivevo io, che non ha la minima idea di quello che ci circondava e ci tentava alla sua età“.
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