Tregua ucraina all’orizzonte, ma la pace è una menzogna

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Secondo l’interpretazione linguistica più accreditata Ucraina vuol dire «terra di confine», in un mondo in cui Mosca era il centro del potere e verso ovest si trovava una marca che faceva da cuscinetto con gli altri potentati dell’epoca. Gli ucraini rifiutano questa visione e citano sempre il Rus’ di Kiev come embrione degli stati slavi dell’Europa orientale. L’epos recente è fatto di irredentismo e rivendicazioni, nazionalismi e accuse che reclamano giustizia nel tribunale evanescente della storia.

E ORA CHE l’Ucraina inizia il quarto anno di guerra contro lo stesso gigante che ha accompagnato la sua esistenza precedente tutti si chiedono quale sarà il suo futuro visto che è ormai dato per scontato da tutti, persino dal capo dei servizi segreti militari di Kiev, Kyrylo Budanov, che il conflitto «finirà entro quest’anno».

Vladimir Putin non vede l’ora di poter annunciare quella vittoria che da tempo gli si è fermata sulla lingua. «Porteremo a termine tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale» è la frase che più abbiamo sentito pronunciare dal Cremlino in questi anni eppure, a oggi, la Russia è riuscita solo in uno dei suoi proponimenti: ha reso l’Ucraina un paese economicamente fallito.

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Se domani il sostegno economico occidentale dovesse venir meno improvvisamente, Kiev andrebbe presto in bancarotta. Si tratta di una conseguenza diretta dell’invasione russa e dello sforzo bellico per far fronte a un nemico economicamente e numericamente più forte, c’è poco da fare. Ma ciò non vuol dire che sia impossibile risorgere da una guerra, per quanto sanguinosa questa sia stata. Soprattutto se si è ricchi, come lo è l’Ucraina, di materie prime e risorse naturali.

IL PUNTO è proprio questo: a Kiev sarà lasciato lo spazio e l’indipendenza necessaria per rinascere? A oggi, no. Donald Trump continua a insistere sul cosiddetto Accordo sulle terre rare ucraine che per ora Zelensky si è rifiutato di firmare perché significherebbe una capitolazione anzi tempo. Dare in concessione diretta o indiretta i giacimenti minerari ucraini, concedere l’uso gratuito dei porti e dei centri di interscambio, azzerare i dazi e rendere (!) un tribunale a New York competente per eventuali dispute vuol dire mettersi un cappio al collo.

È vero che i politici ucraini dichiarano da anni di voler andare verso Occidente ma così siamo fuori misura. Ne è la prova il fatto che Zelensky continua a nicchiare e che Donald Trump ieri si è spinto fino all’intimidazione in stile mafioso. «Se Kiev dovesse rifiutarsi di firmare l’Accordo ci sarebbero dei problemi per gli ucraini», ha detto il presidente Usa. L’effetto si basa sul fatto che la ripercussione non si annuncia, ma a quanto scrive Reuters, i negoziatori di Washington avrebbero minacciato la revoca del sistema satellitare Starlink di proprietà di Elon Musk.

Tuttavia, questi 1095 giorni di guerra cosa hanno dato alla Russia? Circa il 25% del territorio ucraino pre-bellico, un grande divieto di commerciare in Europa occidentale, con annesse sanzioni, e un significativo aumento del debito pubblico. Chi ancora sostiene che le restrizioni economiche non abbiano avuto effetti cerchi le previsioni per il 2025 della Banca centrale russa. Il Donbass, cuore delle rivendicazioni putiniane, emblema della santa protezione dei russofoni nel mondo è ancora parzialmente controllato dagli ucraini. Parliamo di circa il 40% del Donetsk.

«Ma se la Russia volesse…» è l’opposizione più comune dei ferventi sostenitori della potenza del Cremlino. Mosca ha voluto, ha provato – non al massimo delle sue forze, bisogna riconoscerlo perché c’è sempre l’atomica – ma ha fallito. Putin si aspettava una guerra lampo che si è trasformata in tre anni di stillicidio. Credeva di essere accolto come un liberatore in molte delle regioni dove ha inviato i suoi soldati e non ha trovato comitati d’accoglienza.

In breve: voleva dimostrare al mondo di essere il capo di una superpotenza e non è riuscito a piegare militarmente un nemico molto più debole. È dunque ovvio che si trovi d’accordo con Trump: ci vuole una tregua ora, perché la guerra potrebbe durare ancora chissà quanto.

SEMPRE AMMESSO che l’Occidente non si volti del tutto dall’altra parte come Washington già sembra di voler fare. Un’Ucraina senza armi e soldi della Nato sarebbe un obiettivo molto più semplice, ma siamo già fuori tempo massimo per annunciare la «vittoria».

Potremmo dire che sul campo non si vede alcuna vittoria ma solo morte, distruzione e desolazione. Ma nel momento della frenesia geopolitica, in cui si sciorinano teorie sui futuri assetti globali come fossero partite di Risiko tra ubriachi serve a poco. Un appunto dal Donbass, dal quale questo articolo arriva, è però necessario. Non chiamatela pace, qualsiasi cosa sarà non ha quella dignità.

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Non perché non sia la «pace giusta» che chiede Zelensky e ripetono come pappagalli i politici europei da anni, e neanche perché sarà in qualche modo favorevole alla Russia che, come quasi tutti ripetevano tre anni fa – ma erano altri tempi – è l’aggressore. Niente di tutto ciò. Com’è noto a chiunque conosca il contesto ucraino ci saranno migliaia di militari scontenti di una sottomissione al volere di Trump e questi ex soldati addestrati, privati dell’umanità da tre anni di conflitto e forse armati cosa faranno? In Russia i falchi soffiano sulle braci della grandezza nazionale per sputare su qualsiasi pacificazione.

NEL TERRITORIO controllato da Kiev ci sono già (e aumenteranno) centinaia di migliaia di nuovi poveri e sfollati senza più un lavoro. Inflazione e disoccupazione alle stelle. Per non contare gli adolescenti e i bambini che per tre anni sono stati privati di ogni socialità con i loro coetanei. Il tutto per un rinnovato scontro tra superpotenze sulle spalle del malcapitato di turno. È toccato all’Ucraina ed è già andata male, come a molti altri paesi prima, ma per una volta cerchiamo di evitare almeno l’ipocrisia.



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