Dopo aver festeggiato Lucio Corsi all’Eurovision, andatevi ad ascoltare il disco di Joan Thiele: un album perfetto (Joanita) per “evadere dall’evasione” – MOW

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L’album di Joan Thiele, reduce da Sanremo, è un viaggio sonoro dove ogni nota e silenzio narrano storie intense e oniriche. Il disco fonde trap, jazz, R&B e atmosfere noir, creando paesaggi musicali sorprendenti e carichi di emozione. Attraverso 14 tracce invita l’ascoltatore a esplorare una visione autentica e per questo (oggi) rivoluzionaria. E dopo tanto girovagare riannoda i fili con le proprie radici sulla scorta di Eduardo De Filippo: “La tradizione è la vita che continua”

Mentre tutti festeggiamo Lucio Corsi, che dopo la rinuncia di Olly parteciperà all’Eurovision (neanche Carlo Verdone in Vita da Carlo era arrivato a un tale grado di visionarietà, nonostante la profezia su Sanremo 2025), mi sono andato ad ascoltare il nuovo album di Joan Thiele, 20esima all’ultimo Festival, ma che ha pubblicato il disco Joanita (Numero Uno e Sony Music) che è un vero gioiello e si presenta come un viaggio sonoro in cui ogni nota e ogni silenzio raccontano storie che vanno ben oltre la superficie. Con un atteggiamento nel descrivere ciò che la circonda (e anche quello che le suscita inconsciamente) che somiglia ai Cantacronache, l’artista si fa portavoce di quella volontà che sembrava ormai estinta di “evadere dall’evasione”, in più arricchita dai meravigliosi sample di Piero Umiliani (diventato celebre per la canzone Mah-nà mah-nà). Ma in queste 14 tracce c’è molto di personale. In particolare un elemento che la contraddistingue e si sente fortissimo, che in una recente intervista mi aveva confessato: “Io sono molto lacustre nell’anima”. Non a caso, alle origini da parte della madre napoletana e del padre svizzero trapiantato in Canada e con sangue colombiano, lei è cresciuta a Desenzano del Garda. Per raggiungere questo risultato, il disco è fortemente strumentale e i brani appaiono spesso come miraggi nel deserto, le parole si trasformano in onomatopee mentre la voce – simile a quella di una sirena – guida l’ascoltatore attraverso suggestioni acide e lucenti, con un incedere lento ma inesorabile su uno sfondo che fa intravedere possibili turbolenze, celato però dietro una esteriorità apparentemente placida. Le atmosfere noir, punteggiate qua e là da bagliori più immaginati che reali, emergono grazie a synth sognanti e chitarre languide a creare paesaggi eterei.

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Apre con La forma liquida, che è una dichiarazione d’intenti: “Che differenza fa/Essere libera/Senza la mia libertà?/Qual è la verità?/Che differenza fa/Cercare l’estetica/Se la forma è liquida?”. Una riflessione che stabilisce il tono dell’intero lavoro, invitando l’ascoltatore a interrogarsi sul senso stesso dell’identità in un mondo in continua trasformazione. Prosegue con Veleno, dove unisce sapientemente sprazzi di trap e jazz, world music e cantautorato italiano. Le linee di basso marcate e i riff di chitarra energici si fondono in un sound che trova in Callum Connor – produttore e batterista della band Free Nationals, che ha collaborato con artisti come Mac Miller, Anderson Paak, Kendrick Lamar, Dr. Dre, Daniel Caesar, John Legend e Nas – un alleato nella ricerca di suoni vintage e toni “cremosi”. C’è poi la sanremese Eco, con quel ritornello azzeccatissimo che oscilla tra la Patty Pravo del Piper Club e i remake cinematografici di Quentin Tarantino: “E se potessi dirti che/Qui la paura non ha età/Tu fissala forte dentro gli occhi/Spara al centro qui la notte non ci fotte/Bang bang woo”. Che le colonne sonore dei film siano una delle sue ispirazioni non è un mistero, ma qui sono le colonne sonore che si trasformano in canzoni, quasi a dimostrare di poter avere una loro dignità oltre l’immagine che di solito sono costrette a sorreggere. Lo dimostra, per esempio, Bacio sulla fronte, dove le sonorità richiamano lo spaghetti western e la voce di Joan pare farsi narratrice di un regolamento di conti emozionale alla Per un pugno di dollari di Sergio Leone: “Ma che te ne fai della vendetta?/Se ami, poco sì, poco ti resta/Sì, poco ti resta”.

Joanita, però, non è solamente un album di rimandi e suggestioni. Perché da Tramonto si entra anche in una tensione sospesa tra estasi e abisso, come quando intona: “Sembra la benedizione/Sembra la fine del sole”. Un passaggio che incornicia il delicato equilibrio tra luce e ombra, tipico del percorso sonoro di questo disco. Continua con Occhi da gangster (feat. Frah Quintale), che fonde il rap con l’R&B in maniera naturale, creando una sintesi sonora tra contrappunto e fuga che cattura l’attenzione. Da Joanita, invece, una perla di 57 secondi che avrebbe potuto essere una perfetta ghost track e invece appare come uno scoglio sul quale infrangersi, si passa a Cruz, nella quale dipinge un’esperienza quasi esoterica e, nell’interludio, l’ascoltatore viene trascinato negli abissi acquatici di un subconscio in tumulto, un flusso sonoro che evoca introspezioni profonde. Non mancano neppure le ambientazioni più urban, ma sempre rimescolate alla sua personale visione. In XX L.A. trasforma l’immaginario di una metropoli in un continuo rimbalzo tra mare e cielo. Poi, d’un tratto con L’invisibile, come a voler tornare con i piedi per terra dopo tanto girovagare onirico, si fa più intimista e sussurrata in una specie di fado dove la voce dialoga direttamente con la chitarra, evocando una saudade inesplicabile (o invisibile) ma immanente. C’è spazio anche per l’empowerment in Dea, per rincarare la dose in Volto di donna e sottolineare il potere e la grazia femminile in una  personale (o apparente?) destrutturazione de Il cielo in una stanza. Invece di “Questo soffitto viola, no, non esiste più/Io vedo il cielo sopra noi che restiamo qui/Abbandonati come se non ci fosse più/Niente, più niente al mondo”, Joan, al contrario, canta: “Sdraiata sulla sabbia vedo sul soffitto l’universo/Diventeremo sale per restare a galla. Senza gravità, lo sai, non si sogna”. Chiude Pazzerella, omaggio alle origini napoletane. L’unica interprete qui è la nonna in una brano tradizionale che, forse, le cantava da piccola, per riprendere un fil rouge con le proprie radici a chiudere il cerchio tenendo fede all’insegnamento di Eduardo De Filippo: “La tradizione è la vita che continua”.





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