Di ritorno dai villaggi bombardati del sud, il cardinale, al suo ultimo giorno di missione in Libano, ha voluto far sosta al luogo della tragica deflagrazione del 2020 che ha provocato danni alla capitale e ucciso oltre 260 persone. Accanto al porporato i familiari delle vittime. Subito dopo il porporato ha incontrato un gruppo di migranti asiatici e africani nel centro del Jesuit Refugee Service e ha dialogato con un gruppo di confratelli gesuiti. In mattinata il rientro a Roma
Salvatore Cernuzio – Beirut
Nel buio che cala presto sul porto di Beirut e che adombra le gru e uno dei silos esplosi massicciamente nel 2020, spicca solo il bel sorriso di Elias Khoury. Il volto del ragazzo, a 15 anni tra le più giovani vittime della tragedia che ha sconvolto la capitale libanese, era impresso su una fotografia in mano alla mamma Mireille con la scritta Justice for Elias. “Guardi, sembra Carlo Acutis”, ha detto la donna, commossa, incontrando ieri sera il cardinale Michael Czerny. Il prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale – di ritorno dai villaggi del sud devastati dalle bombe israeliane contro Hezbollah, dopo oltre due ore nel traffico di macchine e motorini di quanti hanno raggiunto la capitale per i funerali di oggi dello storico leader del movimento, Hassan Nasrallah – non ha voluto far mancare una tappa a un luogo divenuto simbolo di dolore per i beirutiani e l’intero Medio Oriente. Una tappa breve ma scandita dalla preghiera al memoriale che su una lastra in marmo riporta i nomi delle oltre 260 vittime dell’esplosione e dall’abbraccio ad alcuni dei familiari. Tra cui Mireille, appunto, unica a portare in mano un’immagine del figlio che, davvero coi suoi ricciolini e il sorriso pulito, ricorda il famoso adolescente presto santo.
“Giustizia e verità”
Gli altri hanno invece solo riferito al cardinale i nomi o mostrato sullo smartphone le immagini dei parenti uccisi dall’esplosione, innescata, secondo le autorità, dall’incendio di un’enorme scorta di fertilizzante a base di nitrato d’ammonio. Erano, tra gli altri, Pierre Gemayel, che ha perso il fratello Yacoub, e l’avvocatessa Cecile Roukoz, che anche lei ha visto morire il fratello impiegato in una compagnia di navigazione, nota per la sua battaglia per “giustizia e verità”.
“Giustizia e verità”, sì: un grido che tutte le famiglie dei morti e degli oltre 7 mila feriti al porto ribadiscono da cinque anni, in mezzo a indagini bloccate e quelli che definiscono “ostruzionismi”. Un appello che anche il Papa ha lanciato incontrandoli in Vaticano nell’agosto 2024: “Con voi chiedo verità e giustizia, che non è arrivata: verità e giustizia”.
L’incontro col Papa nel 2024
“Volevamo che fosse fatta giustizia e abbiamo fatto il possibile, ma poiché il caso è stato fermato, siamo andati a fare appello al Consiglio per i Diritti Umani affinché si avviasse un’indagine internazionale, così da conoscere almeno la verità. Si tratta di un crimine contro i diritti umani! Tuttavia non abbiamo ottenuto alcuna indagine, solo una dichiarazione”, ha detto Mireille Khoury ai media vaticani, a margine dell’evento. Non è una donna che alza la voce, che usa toni piccati; la sua è l’implorazione di una madre che si è vista strappare il figlio per le ferite riportate, dopo giorni di terapia intensiva. Anche la figlia più grande, Nour, ha dovuto subire un intervento chirurgico a una mano e la stessa Mireille, scaraventata dalla forza della deflagrazione mentre era in casa, si è fatta male a schiena e costole ed è rimasta a lungo in sedia a rotelle. Di questo, però, ieri non ha detto niente. Lo sguardo era solo al futuro: “L’indagine ora è ripresa e, spero, speriamo che continuerà con il nuovo governo e il nuovo presidente”. Lo ha ripetuto insieme a Cecile anche al cardinale, che ha abbracciato uno ad uno i presenti e ha dato la sua benedizione.
Canti e preghiere
Da parte del porporato nessuna parola, solo “vicinanza, compassione, tenerezza”, le “caratteristiche di Dio” invocate tante volte dal Papa nei momenti di dolore. Poi la preghiera. Czerny, accompagnato dal nunzio Paolo Borgia, da altri sacerdoti e volontari, si è raccolto davanti al memoriale. Un prete ha intonato il “canto della Pasqua” in arabo e tutti insieme hanno recitato il Padre Nostro. Poi ancora qualche abbraccio, altre frasi sussurrate in privato. “La visita di Sua Eminenza ha un grande valore per noi. È stato di supporto e tanto gentile e comprensivo”, hanno commentato i familiari delle vittime. “Il sostegno della Chiesa ha un’importanza enorme, così come quello del Papa”.
“Grande dolore”, ha commentato Czerny uscendo dal porto: “La combinazione della tragedia prersonale con il rifiuto di trovare la verità”.
L’incontro con migranti e rifugiati
Subito dopo il cardinale ha fatto visita al centro del Jesuit Refugee Service di Beirut, non distante dal porto, dove – accolto dal giovane seminarist gesuita Michael Petro, chiamato da tutti “brother” o “abuna” o “eroe” – ha incontrato un gruppo di oltre 20 migranti e rifugiati. Donne e uomini, giovani e anziani, di giorno badanti o domestici, una volta usciti da lavoro attivisti e leader di comunità che aiutano i connazionali in difficoltà e pure i libanesi poveri e gli sfollati. Provengono da Filippine, Sud Sudan, Etiopia, Indiani, Sri Lanka, Bangladesh e ieri con il prefetto del Dicastero per lo Sviluppo integrale hanno condiviso il proprio lavoro, ma soprattutto gli ostacoli incontrati e superati in questi anni di cammino. Tanti ostacoli e tante difficoltà. Specie per le donne, esposte a violenze fisiche, incinte dopo abusi o vittime di razzismo dai membri delle loro stesse comunità solo per aver spostato uomini di altre nazionalità.
Contratti fasulli, lavori schiavizzanti, nessun documento
Mariam, una ragazza della Sierra Leone, a lungo ha riportato i drammi vissuti dalle comunità straniere, sin dalla partenza dei loro Paesi con “agenti” che propongono lavori e fanno firmare contratti in arabo, di cui nessuno capisce le clausole. Oltre a questo, anche il pagamento di circa 3 mila dollari. Una volta arrivati in Libano, però, i migranti incontrano “padroni” che li costringono a lavorare “dalle 9 a mezzanotte”. Se chiedono di andar via, vengono minacciati o denunciati per reati mai compiuti, come l’aver rubato in casa. “Se provano ad andar via e contattano gli agenti – ha spiegato la giovane sierraleonese – questi gli dicono: ok, ridammi i 3 mila dollari, c’è scritto nel contratto. In più non hanno documenti e non sanno neanche come fuggire”.
Il cricket e le altre attività
Durante la guerra ad alcuni di questi uomini e donne i datori di lavoro hanno detto “tu resti qui”, mentre loro sono fuggiti. Anche i migranti alla fine sono scappati, senza sapere però dove trovare un alloggio. Hanno quindi bussato alle porte del JRS e lì dicono di aver trovato non solo “colleghi” ma anche una “famiglia”. Una famiglia che fa rete, che si ritrova a Messa o che apre le sue porte ai gruppi di preghiera buddisti, che aiuta fuori e si aiuta dentro, senza guardare a provenienza e religione. Tante le attività, a cominciare dal cricket multireligioso e multiculturale che raccoglie ogni mese circa 200-300 persone di domenica. “Giochiamo dal sorgere del sole fino al tramonto”, ha spiegato Fernando, “la domenica vengono i cristiani e condividiamo la gioia per la Messa, con gli altri la gioia dello sport. È un modo per relazionarsi”. “Si sono organizzati tra loro ed è bellissimo”, ha osservato Michael. Ed è bellissimo considerando che da soli sarebbero rimasti impantanati in “paure, agonia, sofferenza, nostalgia di casa che accumuliamo dentro, senza sentire il supporto dello Stato”.
Il dono dell’immaginetta dipinta dalla nonna
“Grazie per aver condiviso le vostre difficoltà. Sapete cosa vi può far sentire meglio? Stare qui… Prendere le differenze e nelle differenze creare l’unità”, ha sottolineato il cardinale Czerny. Ha poi esortato a migliorare la “comunicazione”, tra loro e con i giornalisti: “Condividete le vostre storie e tutto quello che avete dentro”. Ai presenti ha infine regalato un’immaginetta della Sacra Famiglia in fuga verso l’Egitto: “L’ha dipinta mia nonna, anche noi siamo una famiglia di rifugiati”.
In dialogo coi confratelli
Lo stesso dono il cardinale lo ha consegnato ai gesuiti incontrati nella Comunità di St. Joseph, impegnati in missioni, lavoro educativo, pastorale sociale o per i padri in pensione non autonomi. A loro l’invito ad “incontrare, ascoltare, sostenere” i vescovi: “Il nostro lavoro è esattamente aiutare i vescovi e, quando diciamo vescovi, intendiamo tutte le persone che lo aiutano a realizzare la sua missione”. Poi l’incoraggiamento ad essere “agenti di speranza” in mezzo a tanti fatti negativi – tra guerre e provvedimenti contro i migranti – che agitano quest’epoca,. La risposta è nel magistero del Papa: “Fratelli tutti… Non è solo questione teologica e pastorale ma la proposta del Santo Padre per il mondo”. Anche il processo sinodale “è un’altra risposta alle sfide del mondo. Tutti gli altri approcci non funzionano più: servono ascolto e discernimento”, ha detto il cardinale. E a conclusione dell’incontro, ha domandato ai gesuiti libanesi di pregare per il Papa e le sue condizioni di salute.
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