Il cardinale dedica una tappa della missione al campo profughi di Kfardlakos, a Tripoli. Una striscia di terra, tra tendoni e casupole con anche 7 persone all’interno, dove la Caritas distribuisce aiuti e mette a disposizione una clinica mobile. Aiuti che non bastano: “Siamo pieni di debiti, abbiamo fame e freddo, i nostri figli si arrabbiano quando vedono al telefonino altri bambini mangiare carne”. La speranza è di tornare in Siria: “Ma lì non è più casa”
Salvatore Cernuzio – Kfardlakos
Così, da un lato, di fronte a una pompa di benzina, sul ciglio di un’autostrada, tendoni e casupole di pietra che sembrano antiche rovine e che invece sono “stanze” con dentro anche 8 persone. Un tanfo che si sente già dalla macchina, la melma a terra che fa sprofondare le scarpe. Cavi elettrici scoperti e una specie di modem per il Wi-Fi legato a un nastro su un palo di legno. Eccolo il campo 004 per rifugiati siriani nel villaggio di Kfardlakos, distretto di Zgharta, governatorato nord del Libano, uno dei cinquanta campi sparsi per il Paese. Se si è emotivi, una morsa assale lo stomaco alla vista dei bambini con il volto impolverato e gli infradito sotto la pioggia; se a prevalere è la ragione, ci si domanda perché queste 125 persone, 25 famiglie e oltre 60 minori, continui a vivere, dopo anche undici anni, in condizioni indecenti e non torni invece in Siria, ora che la “situazione” sembra essersi normalizzata. Lo spiegano le donne, avvolte nei loro chador, il motivo: “Lì non abbiamo nemmeno una coperta, qui almeno c’è un tetto”, urlano al cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, che ha voluto incastonare nella missione in Libano una tappa in questo luogo che non si può descrivere con altre parole se non quelle di Papa Francesco: “Periferia esistenziale”.
Bambini senza scuola che lavorano nei campi o per strada
La questione è complessa e di mezzo c’è pure il blocco dei corridoi umanitari da parte dei governi europei. Poi l’insufficienza dei sussidi Onu: ogni dollaro ricevuto si polverizza a fronte ai debiti che le famiglie accumulano nei negozi vicini per comprare cibo e altri beni. Mille, millecinquecento, duemila dollari. “Debiti, questo abbiamo. Nient’altro”, dice Fteim, 50 anni, siriana di Hana, in Libano dall’inizio dello scoppio della guerra nel 2011. Interviene durante un momento di dialogo con il cardinale sotto un tendone dal quale scendono gocce di pioggia: “L’acqua ce l’abbiamo dappertutto, sopra e sotto, ma non per lavarci. I nostri figli sono sporchi, non hanno vestiti puliti e non vanno a scuola perché non li fanno salire sui pullmini”. I ragazzini vengono mandati quindi a lavorare nei campi o a vendere pacchi di fazzoletti per strada.
Fame e freddo
“Abbiamo fame, non c’è niente” fa eco lo shawish, il capogruppo. “Tra poco inizia il Ramadan, vorremmo vivere il mese come si deve”. “I bambini sentono freddo forte, sono ammalati”, spiega un’altra donna. “Mio figlio l’altro giorno al telefono ha visto un bambino mangiare la carne. Si è arrabbiato molto…”. Urlano tutti, sembra che vogliano appositamente esasperare le loro richieste per ottenere qualcosa nell’immediato.
I bambini…
Gli adulti piangono, i piccoli sorridono. Provano un canto e un saluto in italiano insieme a padre Michel Abboud, il carmelitano presidente di Caritas Libano. Seguono il cardinale lungo il giro nella struttura, guardano incuriositi quest’uomo alto con lo zucchetto rosso e una croce di legno con sopra un chiodo. Gridano e giocano tutto il tempo, coi vestiti sudici di taglie più strette, senza giocattoli ma con quello che trovano a terra.
Una clinica mobile per le donne
Alcune mamme sono giovanissime. Le donne sono la metà della popolazione e, per questioni di credo, non si recano nei centri medici se non accompagnate da mariti o padri. Perciò la Caritas ha messo a disposizione una clinica mobile: su un carretto, una farmacia dove si misura la pressione e si distribuiscono medicine per le malattie croniche; in una delle “stanze”, un cunicolo di pietra scorticata e umida, una sorta di ambulatorio dove due medici, Dalia e Pierre, hanno allestito un lettino e una macchina ecografica portatile. “Visitiamo almeno cinquanta persone al giorno e 10-15 casi sono di gravidanza”, spiegano. “No, non restano incinte dopo violenze”, chiarisce subito la dottoressa. Lo stesso servizio, la Caritas locale lo presta attraverso undici unità mobili anche in tutti gli altri campi rifugiati e anche per i libanesi dei villaggi più poveri. Non ci sono priorità e preferenze, ma solo emergenze.
La “casa” di Fteim
Nello 004 di Kfardlakos l’emergenza è continua: una volta le infezioni, una volta la mancanza di acqua e corrente, quasi sempre è la scarsità di cibo e l’impossibilità di vivere in sette, in otto, o anche in dieci – come accaduto durante la guerra – in un cubo di pietra, con tappeti su pavimento e pareti e un cucinino dietro una tenda che funge anche d’armadio. “Venite, vi faccio vedere”, esorta sempre Fteim invitando nella sua “casa” il cardinale e la delegazione. Agita le mani per indicare la ristrettezza, il marito malato, il nipotino di 3 anni che dorme sotto due piumoni: “Ci hanno appena portato le coperte dalla Caritas, ma guardate qui – dice, indicando la ‘cucina’ – qui non c’è niente”. Piangendo, la donna poggia la fronte sulla mano del cardinale che l’abbraccia e posa il capo sopra il velo. Anche il marito si lancia in un abbraccio e lo stesso fa Mohammed, 37 anni, apparso all’improvviso. Prima gridava di avere sette figli e di aver bisogno di un intervento. Piange con gli occhi chiari, quasi vitrei, che spiccano sulla pelle scura. Sorride con i denti impastati, sintomo di un corpo che non riceve abbastanza liquidi. Annuisce quando padre Abboud gli spiega che devono chiamare l’helpline di Caritas per registrarsi e ottenere aiuti, ma poi segue tutti i sacerdoti sussurrando di dargli qualche soldo.
Tornare in Siria
Il desiderio di tutti è di tornare a casa: “Grazie a Dio il regime di Assad è andato via, vogliamo che la vita torni come prima”, dice lo shawish. Il problema è che “in Siria non c’è niente”. Nessuno è andato a controllare e serpeggia la paura che la “nuova situazione” possa trasformarsi e diventare peggiore di quella da cui sono fuggiti. Intanto i libanesi, strangolati da crisi economica, calo degli stipendi, mancanza di lavoro, non riescono più a sostenere questo milione e mezzo di persone sul loro territorio. Un circuito senza fine. “Se qualcuno ci assicura una casa in Siria noi possiamo tornare”, dicono. “Aiutateci”, urlano. E ringraziano per la presenza di un ospite illustre nel campo. “Baba Francis!”. “No, non è Papa Francesco. È un suo collaboratore”, corregge un sacerdote.
“Il Papa piange con voi”
“Siamo venuti per conoscervi e ascoltarvi e condividiamo la vostra speranza di tornare a casa, in Siria”, scandisce Czerny. “Il Papa è contento che io sia qui tra voi, noi piangiamo delle vostre sofferenze. Il Papa piange con voi, vi vuole bene”. Sulla strada del ritorno verso Harissa commenta la visita: “Sono senza parole nel vedere una vita vissuta in extremis. Le condizioni sono impossibili, la gente lotta per sopravvivere, vuole tornare a casa ma sa che in Siria è difficile. Di fatto, lì non c’è più una casa”.
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