Il paradosso della motosega populista: Musk e Milei adottano un simbolo che, se usato correttamente, fa a pezzi la loro ideologia

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Io me la sono immaginata così la riunione in cui Javier Milei, il neopresidente “turbo-capitalista-liberista” argentino, ha preso la decisione, insieme alla sua personale Bestia (il team di comunicazione di salviniana memoria), di adottare come simbolo una motosega.

 

“Potremmo farci costruire un’enorme forbice, da montare sui palchi dei comizi. A simboleggiare tutti i tagli che Javier invocherà nella campagna elettorale”, dice qualcuno svogliatamente.

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“Una forbice? Roba leggera, fine, da sarti! Non funzionerà mai!”, risponde il candidato evidentemente irritato, grattandosi gli enormi basettoni con entrambe le mani.

 

“Allora un bel seghetto, che Javier potrebbe imbracciare mentre arringa la folla!”, dice qualcun altro, leggermente più entusiasta ma non del tutto convinto.

 

“Un seghetto? Ma siete impazziti!? Mi daranno della mezza sega! Ci vuole qualcosa di grosso, di rumoroso, di estremo!”, urla allora irritato Milei, sbattendo i pugni sul tavolo.

 

Ed ecco che un giovane collaboratore, rimasto fino a quel punto in silenzio, balza in piedi e con la voce spezzata dalla folle visione che lo ha appena attraversato urla: “Una motosega! Una motosega da accendere, brandire e far rombare sui palchi e nelle piazze!”

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Anche Javier si alza in piedi, illuminato, con quello sguardo tra l’inebetito e il fiero che il suo team ormai conosce bene. Occhi stralunati, ciuffo scomposto, sorriso beffardo. “Sì! Sì, ci siamo! Impazziranno i benpensanti e i radical chic, inorridiranno gli ambientalisti, finirò sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo… forza! Procuratemi subito una mo-to-se-ga!!!

 

L’insolito simbolo di Javier Milei, dopo aver caratterizzato la sua ascesa al potere in Argentina, è tornato a comparire sui giornali di tutto il mondo venerdì 21 febbraio 2025, quando il Presidente argentino ha regalato un’enorme motosega rossa e argentata, caratterizzata dalla scritta “Viva la libertad carajo!” (“Viva la libertà, cazzo!”) ad Elon Musk, esortandolo ad iniziare alla massima potenza il suo nuovo compito di consulente ai tagli alla spesa pubblica degli USA. Musk ha risposto al regalo impugnando l’oggetto con fierezza e convinzione, mimandone l’uso a favore di pubblico, fotografi e telecamere. Il siparietto è avvenuto al Cpac, il raduno delle destre mondiali dove Steve Bannon, ideologo della prima campagna elettorale di Trump, ha addirittura aizzato la folla con il saluto nazista.

“Hai visto?”, mi ha scritto un collega forestale appena le immagini hanno iniziato a girare, “ci mancava solo questa. Già le motoseghe le odiano in molti, ora sono pure politicizzate”.

 

Questo messaggio mi ha fatto riflettere. Perché il fatto che le motoseghe siano in generale viste di cattivo occhio da una parte consistente della popolazione, in quanto strumento coinvolto in possibili devastazioni ambientali o in qualcosa che non siamo più abituati a comprendere (la selvicoltura), è sicuramente un punto a favore per quelli come Milei e Musk. Cavalcare simboli odiati da una certa parte dell’elettorato – le motoseghe come il saluto fascista/nazista – è parte integrande della strategia di netta rottura e di totale confusione che i nuovi populisti usano ad arte per inquinare il dibattito, dribblando la complessità dei temi, la veridicità delle affermazioni, la concretezza delle proposte.

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Per questo ho pensato che, di fronte a questa provocazione guidata da uno strumento forestale, l’unico vero antidoto fosse quello di riflettere su quanto la motosega possa aiutarci a costruire un mondo diametralmente opposto a quello che vorrebbero i Trump, i Milei, i Musk.

 

La motosega ovviamente non è altro che uno strumento. Come il coltello, che può servire per tagliare il pane ma anche per uccidere (come dice sempre il direttore della rivista Sherwood Paolo Mori), anche la motosega può essere devastante ma anche utilissima in attività che permettono la nostra vita sulle montagne in equilibrio con l’ambiente circostante. Senza motoseghe, oserei dire, non ci potrebbe essere, oggi, vita in montagna.

 

Perché la motosega ci serve a produrre legna e legname dai nostri boschi, materie prime rinnovabili che ci scaldano e ci permettono di realizzare manufatti riducendo quelle fonti fossili celebrate da Trump attraverso il suo motto “Drill, baby, drill”, ovvero estrarre petrolio, petrolio e ancora petrolio, alla faccia della scienza e degli accordi internazionali sul clima.

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La motosega ci permette di manutenere i sentieri e le piste forestali lungo cui camminare, correre o pedalare, per riavvicinarci al territorio rurale e disintossicarci dalle città ipertecnologiche dominate dai signori dell’algoritmo.

 

La motosega ci permette di realizzare opere di ingegneria naturalistica, per rendere il territorio più resistente e resiliente agli eventi estremi; ma anche di realizzare anche opere di prevenzione antincendio: tutte attività necessarie per adattarci alla crisi climatica negata dai nuovi turbo-capitalisti.

 

La motosega ci permette di recuperare prati e pascoli abbandonati, favorendo il ritorno dell’agricoltura di montagna e aumentando la biodiversità legata agli spazi aperti. Il ripristino dei paesaggi culturali e degli agroecosistemi è uno dei temi spesso derisi e osteggiati dalle nuove destre.

 

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La motosega ci permette di recuperare, potare e manutenere orti, frutteti e castagneti da frutto, simboli di un legame antico tra alberi, territorio ed esseri umani nelle “montagne di mezzo”, quelle più dimenticate da una certa politica che sembra vivere solo tra le grandi città e le località chic di alta montagna.

Potrei andare avanti a lungo nel narrare le utilità della motosega per costruire un mondo ben diverso da quello che vorrebbero i personaggi riuniti al Cpac. Un mondo dove gli investimenti pubblici, che i turbo-liberisti alla Milei e Musk vorrebbero azzerare, appaiono invece fondamentali per guidare processi e azioni svolti per il bene comune, non sempre demandabili alla sola azione privata. Processi e azioni che spesso, in montagna, passano anche dalle attività agro-silvo-pastorali, quindi dall’uso consapevole delle motoseghe. Ma vorrei concludere focalizzando l’attenzione sulle differenze tra le motoseghe imbracciate da Milei e Musk e quelle utilizzate ogni giorno sulle montagne (se per attività lecite, funzionali e sostenibili, chiaramente).

 

Le loro sono pulitissime, senza un graffio, addirittura cromate e luccicanti (e, come mi ha fatto notare qualche boscaiolo, spesso mostrate alla folla senza neppure la catena): simboli potenti ma vuoti.

 

Le nostre odorano di resina, sono cosparse di segatura, mostrano i segni dell’usura e sono impregnate di sudore e fatica: oggetti ordinari, quasi banali, ma pieni di significato, di lavoro, di pragmatismo, di vero contatto con il territorio.

 

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Per non cedere al suono di questi “pifferai assetati di potere”, come li ha definiti Paolo Rumiz su L’AltraMontagna, occorre uscire dallo schema in cui tentano di imbrigliarci, dalla loro narrazione ogni giorno più sguaiata, dai loro simboli creati ad arte per farci irritare fino a impazzire.

 

Alle finte motoseghe di Milei e Musk rispondiamo allora con quelle vere, che ogni giorno alacremente lavorano sulle nostre montagne per darci beni e servizi. Facciamo in modo che dietro le mani che le imbracciano ci siano cervelli sensibili e attenti, attorniati da una società capace di dotarsi di regole e controlli. Trasformiamo il loro nuovo simbolo di distruzione nel nostro rinnovato simbolo di cura del territorio, andando oltre a quegli stereotipi in cui, troppo spesso, anche noi tutti rischiamo di inciampare.

 

È esattamente ciò che non vorrebbero.





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