Non era Mattia Maestri da Codogno il «paziente zero», l’untore che esattamente cinque anni fa portò in Europa il coronavirus. Maestri in Cina non c’era mai andato e da chi abbia contratto il Covid-19 è tuttora un mistero.
Però adesso sappiamo che le polmoniti anomale si registravano già in gennaio, soprattutto nella Val Seriana. Dato che «Bergamo is running» – così disse la locale Confindustria – e non si può fermare, nessuno aveva approfondito quel segnale.
Errori, com’è naturale commetterne di fronte a un pericolo nuovo. Ma anche tare storiche che il servizio sanitario nazionale si trascinava dalla nascita. Per esempio, l’assenza di un piano pandemico aggiornato e di una sanità territoriale all’altezza. L’epicentro lombardo fino a quel momento era ritenuto un modello però i medici di famiglia disarmati prima morirono come mosche, poi furono congedati. Ai malati rimasero solo ambulanze e pronto soccorso che si trasformavano in nuovi focolai. I più gravi finivano in reparti di terapia intensiva dove mancavano sia gli infermieri che i ventilatori. Furono i vaccini e una fortunata mutazione del virus a farci rialzare la testa.
Chi scrisse sui balconi che ne saremmo usciti migliori, cinque anni dopo deve ricredersi. Passata la crisi, per rinforzare le proprie infrastrutture l’Italia ottenne dall’Unione europea duecento miliardi di euro, venti dei quali destinati alla salute: c’era una sanità territoriale da ricostruire e ospedali da ammodernare. Dopo anni di riforme della sanità territoriale rimaste inapplicate, l’Italia aveva deciso finalmente di dotarsi di una rete di case e ospedali «di comunità» in grado di alleggerire le strutture principali dai malati che si possono curare altrove.
E invece siamo allo stesso punto di prima. Di case ne abbiamo realizzate solo una cinquantina su un migliaio previsto e alla scadenza del prestito europeo manca un anno. E il personale che deve lavorarci? Gli infermieri non si trovano, i medici piuttosto che trasferirsi nelle case di comunità preferiscono accogliere gli assistiti «a studio». D’altronde il governo (i governi) non hanno fatto nulla per formare i professionisti che dovrebbero tenere aperte le case, come comprarsi una Ferrari senza preoccuparsi della benzina. Il governo stesso ci crede così poco che nel nuovissimo piano pandemico 2025-2029 delle case di comunità non si parla nemmeno. Anche i fondi per dotare gli ospedali di macchinari per ecografie, risonanze magnetiche e Tac (gli esami diagnostici con le liste d’attesa più lunghe) sono stati dirottati altrove: gli acquisti sono stati rinviati di due anni e chi ha fretta si rivolga al privato.
Non siamo gli unici al mondo a non aver appreso la lezione della pandemia. Un po’ come l’Onu alle prese con Ucraina e Gaza, anche l’Oms è uscita a pezzi dalla crisi Covid. Il trattato internazionale contro le pandemie è su un binario morto. L’uscita degli Usa affida definitivamente l’organizzazione ai filantrocapitalisti e all’influenza di Pechino. Le prossime crisi sanitarie globali saranno affrontate dai governi in ordine sparso, a tutto vantaggio dell’industria farmaceutica che alzerà il prezzo su ogni farmaco e vaccino. La pandemia infatti non ha scalfito il potere di monopoli e brevetti, come a un certo punto ha chiesto invano anche il Parlamento Europeo. Il rischio adesso è che il Covid-19 venga definitivamente impacchettato nella categoria delle eccezioni storiche, i cataclismi imprevedibili da dimenticare al più presto come i terremoti. Lo spillover di un virus non è un incidente, mail sintomo di una crisi ambientale più vasta e ormai documentata: è un modello di sviluppo suicida a sottrarre terra alle foreste e a mettere a stretto contatto insediamenti umani, allevamenti intensivi e fauna selvatica. La coincidenza tra emergenza climatica e crisi sanitaria non è casuale, così come la voglia di dimenticarle entrambe.
L’unica speranza viene dai sondaggi di opinione. Dopo la pandemia, in ogni indagine statistica italiane e italiani mettono puntualmente la sanità pubblica in cima alle loro priorità. Come se il virus ci avesse ricordato che il diritto alla salute non è acquisito una volta per tutte. Questa sensibilità invita la politica a prendere l’iniziativa. Il governo finora ha risposto all’appello solo con gli slogan sul «più alto investimento pubblico di sempre a favore della sanità», smentiti da qualunque analisi onesta. L’opposizione non ha fatto di meglio: della mobilitazione «ospedale per ospedale» annunciata nello scorso novembre da Elly Schlein si è persa ogni traccia. Prima che questa finestra di attenzione si chiuda, è il caso di occuparsene davvero.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link