Il Kosovo dopo le elezioni: sfide interne e tensioni geopolitiche

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Le elezioni parlamentari tenutesi in Kosovo il 9 febbraio scorso hanno sancito una “vittoria a metà” per il già Primo Ministro Albin Kurti, il quale necessiterà di alleati per continuare a governare. Al di là delle prospettive di coalizione, però, il possibile secondo mandato di Kurti si preannuncia tortuoso di fronte ad un contesto economico fragile, forti conflittualità interetniche e instabili equilibri regionali ed internazionali. Tra questi, l’amministrazione kosovara dovrà misurarsi con le pressioni internazionali per la normalizzazione dei rapporti con la Serbia e con la necessità di recuperare un dialogo costruttivo con l’UE, anche e soprattutto considerato il potenziale ruolo di influenza degli Stati Uniti con Trump sulla regione. 

Domenica 9 febbraio la popolazione kosovara alle urne ha rinnovato la fiducia nei confronti dell’ex Primo Ministro Albin Kurti e del suo partito Vetevendosje, che ha ottenuto il 41,05% dei voti. A differenza delle elezioni svoltesi nel 2021, in cui il “Partito per l’Autodeterminazione” ottenne oltre il 50% dei consensi, questa volta Kurti necessiterà di una coalizione per continuare a governare il Paese e raggiungere la maggioranza di 61 seggi nell’Assemblea della Repubblica del Kosovo. 

Un panorama politico frammentato e instabile 

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Sebbene le primissime dichiarazioni dell’ex Primo Ministro e vincitore, precedenti ai risultati elettorali, sembrassero escludere fermamente la collaborazione con i partiti di opposizione, sintomo forse di un’incauta fiducia da parte di Vetevendosje, occorre osservare se e come Kurti manterrà la parola dopo una vittoria incompleta. Anche laddove gli sforzi conducessero alla formazione di governo a guida VV, questo rischierebbe di essere fortemente instabile e ricalcare la tendenza della politica kosovara che, ad eccezione dello scorso mandato Kurti inaugurato nel 2021 e durato una legislatura intera, è stata sempre caratterizzata da legislature interrotte e governi ad interim, con una durata media di 290.9 giorni dall’indipendenza nel 2008 al 2020. 

Alla base di questa sistemica fragilità degli equilibri politici vi sarebbero diversi fattori, primo tra tutti una forte polarizzazione del sistema politico. Come anche gli osservatori UE per le elezioni hanno rilevato, seppur riconoscendo la  competitività, inclusività e trasparenza delle dinamiche elettorali in Kosovo che spiccano come esempio democratico nella regione, il dibattito politico kosovaro presenta estremità difficilmente comunicanti, con i maggiori partiti (VV, PDK e LDK) che rifiutano la formazione di coalizioni tra loro e lasciando il potere nelle mani di governi instabili e divisi internamente. 

Un altro fattore caratterizzante la politica di Pristina è poi il ruolo cruciale svolto dalla Corte Costituzionale del Kosovo nella formazione e caduta dei governi. Attraverso le sue sentenze, infatti, essa ha dichiarato incostituzionali due presidenti, allarmando circa la sua immunità e reale indipendenza dalla sfera politica. Inoltre, la sua attività ha plasmato il sistema politico kosovaro e la modalità di formazione dei governi. Nel 2014, ad esempio, nonostante la vittoria alle elezioni, il PDK non riuscì ad ottenere la maggioranza per formare un governo, situazione simile a quella corrente, e l’opposizione cercò di creare un blocco alternativo; tuttavia, il PDK impedì la convocazione della sessione costitutiva, conducendo il Paese a uno stallo di circa 6 mesi. La Corte, in quel frangente, stabilì che la priorità nell’avviare la formazione di governo spetta al vincitore delle elezioni e non alla maggioranza parlamentare, concedendo al PDK di formare un governo con LDK e nominare il Primo Ministro, nonostante fosse stato costituito un blocco di opposizione avente la maggioranza nell’Assemblea. La postura della Corte, quindi, legittimò di fatto il blocco istituzionale rendendo i cambi di governo più complessi. 

In ultima istanza, in media la formazione di un governo in Kosovo richiede circa 92 giorni, ben al di sopra della media europea di 27. La sfida di Kurti dopo la vittoria dolce-amara sembra ripercorrere la stessa tendenza, anche a causa delle dichiarazioni dei partiti di opposizione che sembrano essere tutt’altro che propensi a negoziare. Bedri Hamza, leader del PDK che ha ottenuto il 22,2% dei voti, ha affermato che non formerà un governo con VV, sottolineando le profonde differenze tra i due partiti e ritenendo che Kurti ambisca a un “potere assoluto”. Anche l’ LDK, che con il 17,8% è un altro potenziale candidato per formare una coalizione di maggioranza con Kurti, ha escluso la possibilità di collaborare.

Al di là della coalizione che riuscirà a formare un governo, essa si troverà di fronte a una situazione interna complessa, che ha portato le campagne dei partiti in corsa a concentrarsi su promesse di aumento degli stipendi pubblici, incremento del livello di istruzione e servizi sanitari oltre che misure per alleviare la povertà di un Paese che, con un PIL lordo annuo a persona inferiore ai 6mila euro, si posiziona come uno dei più poveri del Vecchio Continente. Una delle sfide principali che la futura amministrazione dovrà affrontare è un alto tasso di disoccupazione che sfiora il 25%,con  picchi del 50% per i giovani dai 15 ai 24 anni accompagnato da fenomeni di forte brain drain qualificato verso altri paesi dell’Unione. Infrastruttura debole, bassa produttività e attrattività degli investimenti, con circa il 30% del PIL generato dal settore informale, completano il quadro. La struttura economica è poi fortemente dipendente dai finanziamenti internazionali di USA e UE, alcuni dei quali sono stati congelati e sospesi in ragione del mancato adempimento di obblighi di normalizzazione dei rapporti con la Serbia. Come il nuovo Primo Ministro risponderà a quest’ultimo imperativo sarà dunque cruciale non solo per ristabilire un dialogo costruttivo con i partner internazionali e attenuare il conflitto interetnico, ma anche per assicurare una ripresa economica credibile. 

Le frizioni con gli alleati e il dossier Kosovo-Serbia

Il rapporto con le cancellerie occidentali, infatti, è stato oggetto di varie turbolenze soprattutto dal 2023 in poi, costituendo per questa ragione anche un elemento di confronto durante la campagna elettorale.
Nel corso degli ultimi anni, Albin Kurti ha sostenuto la necessità di affermare pienamente la sovranità di Pristina anche nelle aree a maggioranza serba nel Kosovo del Nord. Questo obiettivo, però, è stato spesso perseguito con operazioni unilaterali e non coordinate con i Paesi occidentali, i quali hanno avanzato una serie di critiche temendo conseguenze negative sui rapporti interetnici in Kosovo così come sulla stabilità regionale. Si possono ricordare, in questo senso, vari episodi. In primo luogo, la chiusura, da parte delle autorità di Pristina, delle “istituzioni parallele” ancora gestite dai serbi nelle aree dove questi rappresentano il gruppo etnico maggioritario, attuata attraverso numerosi interventi mirati (e criticati dalle ambasciate occidentali). In secondo luogo, ha suscitato forti polemiche l’imposizione, nei primi mesi del 2024, dell’euro come unico mezzo di pagamento legalmente valido, anche nel Kosovo del nord dove era ancora in uso il dinaro serbo; un provvedimento che le diplomazie occidentali hanno criticato non sotto il profilo della legittimità, ma con riguardo alle tempistiche troppo brevi e alla necessità di informare in modo adeguato i cittadini. Nel corso dell’estate, poi, il governo Kurti ha tentato di ottenere l’apertura unilaterale e completa del ponte tra le due municipalità di Mitrovica (quella settentrionale a maggioranza serba e quella a sud, a maggioranza albanese), trovando però l’opposizione dei partner internazionali e anche della missione KFOR presente nel Paese. 

Un altro elemento di divergenza riguarda l’istituzione dell’Associazione delle Municipalità nei comuni a maggioranza serba nel Kosovo del nord, stabilita in virtù degli accordi di Bruxelles del 2013-15 e volta ad assicurare a tali comuni un certo grado di autogoverno, mai però realizzata effettivamente. Albin Kurti si è più volte detto contrario a mettere a punto un’entità locale su fondamenti esclusivamente etnici, ritenendo che ciò costituirebbe un elemento di instabilità per la Repubblica del Kosovo analogamente a quanto accade in Bosnia-Erzegovina a causa della Republika Srpska.
Sono ancora in vigore, inoltre, le misure punitive “temporanee e reversibili” imposte contro Pristina da parte dell’UE nel giugno 2023, in seguito ai disordini avvenuti nel Kosovo del nord durante il mese precedente. La rimozione di queste misure era condizionata a una serie di passi del governo kosovaro volti ad abbassare la tensione nelle aree a maggioranza serba, tra le quali l’organizzazione di nuove elezioni nei comuni in cui, in seguito a tornate elettorali boicottate dai serbi, dei sindaci di etnia albanese erano stati eletti alla carica di sindaco. Nell’aprile 2024, su spinta dei Paesi occidentali, si sono tenuti dei referendum per la rimozione di questi sindaci; tuttavia, gli elettori di etnia serba hanno ancora una volta boicottato le urne. In virtù di ciò, Pristina ha chiesto ripetutamente l’eliminazione delle sanzioni europee, ritenendo di aver soddisfatto tutte le richieste; su questo fronte, però, non vi è ancora un accordo totale, in quanto alcuni Paesi sostengono la rimozione completa e immediata delle misure, mentre altri preferirebbero un’eliminazione graduale e condizionata a una serie di ulteriori passi.

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L’UE, infatti, chiede al Kosovo, così come alla Serbia, di compiere progressi concreti nella direzione della normalizzazione delle relazioni bilaterali, in accordo con quanto stabilito con l’accordo di Ohrid concluso, con sotto la mediazione dell’UE, il 18 marzo 2023. A partire da allora, tuttavia, i passi concreti verso la sua implementazione sono stati scarsi, con le due parti particolarmente restie ad agire con riguardo ai punti politicamente più delicati del documento: dal lato kosovaro, la concessione di un certo grado di autogoverno ai comuni serbi del nord, stabilita dall’art. 7 (con riferimento all’Associazione delle Municipalità); dal lato serbo, tra gli altri, la non opposizione da parte di Belgrado all’ingresso della Repubblica del Kosovo nelle organizzazioni internazionali.
Al termine di un periodo caratterizzato non solo dalla carenza di progressi nel dialogo tra Belgrado e Pristina, ma anche da un peggioramento delle relazioni tra le parti, in particolare dopo l’attentato di Banjska del settembre 2023 (compiuto da un commando di paramilitari serbi e per il quale il governo kosovaro ha accusato direttamente la Serbia), l’UE ha optato per un cambio di guardia nel ruolo di mediatore tra le due parti. Allo slovacco Miroslav Lajčák, infatti, succederà il diplomatico danese Peter Sørensen. In ogni caso, Bruxelles ha ribadito, anche in seguito alla nomina di Kaja Kallas come Alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che la normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo sarà una condizione per l’avanzamento di entrambe le parti verso l’ingresso nell’UE. 

Anche le relazioni tra Pristina e Washington non sono state esenti da turbolenze nel corso degli ultimi anni. Mentre il Dipartimento di Stato ha più volte ribadito la necessità assoluta di assicurare la stabilità regionale, garantendo in questo senso il pieno appoggio al dialogo Belgrado-Pristina mediato dall’UE, l’ambasciata statunitense in Kosovo ha più volte affermato l’inopportunità di mosse unilaterali e non coordinate, potenzialmente foriere di crisi interetniche e di una destabilizzazione del quadro regionale. Per questa ragione sono state criticate le varie misure prese dal governo di Kurti nel Kosovo del nord, che secondo l’ambasciatore USA uscente Jeff Hovenier hanno avuto un impatto negativo sulle relazioni tra Kosovo e USA.

Quali prospettive con il ritorno di Trump?

Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha riportato in auge la figura di Richard Grenell, che durante la prima amministrazione del tycoon ricoprì il ruolo di inviato speciale per i negoziati Serbia-Kosovo. Nelle scorse settimane, Grenell ha espresso dure critiche a Kurti, descrivendo le sue azioni come negative per la stabilità regionale e accusandolo di aver portato ai minimi storici i rapporti tra Pristina e Washington.

In questo contesto, non è da escludere l’adozione di un nuovo approccio al dossier kosovaro da parte della nuova amministrazione repubblicana. Se, infatti, durante la presidenza Biden gli USA hanno messo in primo piano la garanzia della stabilità regionale (da perseguire attraverso l’avvicinamento degli attori locali alle istituzioni euro-atlantiche e la risoluzione delle dispute sul terreno) e un’azione sinergica con l’UE, sostenendo l’azione di mediazione di Bruxelles, sotto Trump potrebbe essere riproposto un approccio più diretto, unilaterale e transazionale, senza necessariamente agire in sintonia con gli alleati europei. Questo approccio si manifestò, per esempio, con l’accordo sulla normalizzazione delle relazioni economiche tra Serbia e Kosovo, concluso a Washington nel 2020; alcuni ambienti della prima amministrazione Trump, inoltre, avrebbero supportato l’idea di uno scambio di territori tra Serbia e Kosovo, discussa in particolare nel periodo 2018-19, che però non ottenne ampi consensi all’interno dell’UE, in quanto si temeva che tale proposta avrebbe potuto aprire la strada a una serie di altre rivendicazioni territoriali nello scenario balcanico.

La gestione del rapporto con gli alleati occidentali, in ultima analisi, costituirà una delle sfide da affrontare per il prossimo governo kosovaro, insieme alle varie questioni che caratterizzano il piano interno. Da questo punto di vista, il ritorno di Trump alla Casa Bianca potrebbe comportare dei mutamenti nell’approccio statunitense e influenzare la dinamica dei rapporti tra Pristina e Belgrado, mettendo inoltre in discussione la sintonia transatlantica su questo dossier.





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