Gli ordini del boss dalla cella, 6 arresti a Camporeale

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CAMPOREALE. Autorizzavano l’acquisto di fondi agricoli, recuperavano crediti e dirimevano le controversie. Quella descritta dall’indagine della Procura di Palermo è una mafia agro-pastorale che a Camporeale aveva assunto forme “parastatali”. Un clan che gestiva il territorio di Camporeale, all’interno del mandamento di San Giuseppe Jato, attraverso una fitta rete di legami tra il boss in carcere e gli affiliati a piede libero. Una rete che ieri però è stata colpita, sgominata. Sono sei le persone di Camporeale arrestate dai carabinieri del Nucleo investigativo del Gruppo di Monreale perché ritenute responsabili del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Si tratta del sessantaduenne Antonino Sciortino (che già si trovava in carcere per mafia), il cinquantanovenne Antonino Scardino, i fratelli Pietro e Giuseppe Bologna, di 68 e 63 anni, il cinquantenne Giuseppe Vinci e Raimondo Santinelli di 37 anni. Tutti camporealesi. A firmare l’ordinanza di custodia cautelare, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, è stato il Gip Lirio Conti. Tra gli indagati figura anche il sindaco Gigi Cino, che avrebbe attestato il falso.

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Dalle intercettazioni disposte dalla Procura emerge che il clan non esitava a ricorrere a violente ritorsioni per presunti “sgarbi” o mancanze di “rispetto”. Così utilizzava anche i pestaggi. Agli arrestati viene contestato, infatti, l’uso della forza intimidatrice come strumento principale di azione. E le indagine della Dda hanno messo in luce come la leadership di Sciortino, nonostante fosse in carcere, non si sia mai interrotta. I mafiosi dal carcere riescono a controllare ancora i loro territori. Così come dimostrato nei giorni scorsi anche dall’indagine antimafia che ha portato all’arresto 181 persone dei clan di Palermo, Bagheria, Carini e Terrasini. In quel caso gli indagati violavano le misure di sicurezza, anche in carcere, con telefoni criptati e chat segrete.

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Il clan “governava” il territorio camporealese

A Camporeale invece il flusso di informazioni dal carcere arrivavano e partivano grazie ai video-colloqui tra i carcerati e i familiari, che poi riportavano all’esterno le indicazioni da dare agli affiliati. Tra le più attive nel veicolare i messaggi ci sarebbe stata Anna Maria Colletti, moglie del capomafia Sciortino. Che nonostante sia in carcere dal 1999, continuava a mandare ordini all’esterno. In particolare al cugino Antonino Scardino, diventato reggente del clan camporealese. Era suo il compito di tenere uniti il clan gestendo gli attriti e richiamando all’ordine i picciotti. Sotto la sua direzione c’erano i fratelli Bologna, Vinci e Santinelli che, insieme ad altri, curavano la mietitura dei fondi agricoli riconducibili a Sciortino, il foraggio del bestiame e la vendita ad un prezzo imposto maggiorato di bovini e ovini destinati al macello. Il tutto per finanziare soprattutto la famiglia del boss in carcere. Scardino aveva inoltre il compito di autorizzare l’acquisto di fondi agricoli, il recupero dei crediti e, alla stregua di “un giudice campestre”, interveniva per risolvere le controversie tra privati. Un potere esercitato, secondo gli inquirenti, grazie alla forza intimidatrice del clan che dettava le regole del pascolo e quelle sulla compravendita dei terreni. Chi non le rispettava subiva l’azione violenta, come quella messa da Giuseppe Vinci nei confronti di R. L., “colpevole” di aver avviato senza autorizzazione dei lavori su un terreno che Vinci utilizzava per il pascolo del suo bestiame.

La cantina Rapitalà ritenuta “permeabile”

A foraggiare la famiglia del boss carcerato sembra non ci fossero però solo i proventi delle attività agricole gestite col metodo mafioso, ma anche le “regalie” di aziende e commercianti. Nelle carte dell’inchiesta salta fuori c0sì il nome della nota azienda vinicola “Rapitalà” che annoverava tra i suoi dipendenti Alfio Tomarchio, nel frattempo deceduto, e Ignazio Arena. Entrambi ritenuti vicini alla cosca camporealese. All’interno della cantina, ritenuta «permeabile» al clan, risultavano impiegati anche diversi familiari delle famiglie malavitose e altri soggetti ritenuti vicini. Così la cosca riceveva, con cadenza mensile, denaro, vino e gasolio tramite alcuni dipendenti dell’azienda ritenuti dai carabinieri contigui al clan. I soldi servivano per pagare le spese legali della famiglia Sciortino. Le indagini parlano inoltre di “un meccanismo di collaudato asservimento dell’impresa agli interessi mafiosi”. Nel sistema rientrava anche, secondo gli inquirenti, anche l’assunzione di operai stagionali. Così come confermerebbero diverse intercettazioni telefoniche. Le indagini si sono avvalse inoltre delle immagini riprese da un sistema di videosorveglianza e del monitoraggio video dell’abitazione di Scardino, dove si recavano i dipendenti dell’azienda Rapitalà. Dalle carte dell’inchiesta emerge anche che a finanziare la cosca locale c’era pure un bar del paese, che fece un versamento di mille euro a Scardino. (LEAS)

LEANDRO SALVIA (Giornale di Sicilia del 19/02/2025





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