Suicidio maschile: quanto pesa il modello di virilità?

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Reduce da un Festival di Sanremo di grande successo, il mondo della musica sta ancora assorbendo una notizia di poche settimane fa: la morte di Alex Benedetti, direttore artistico di Virgin Radio e Deejay, che il 10 febbraio scorso si è tolto la vita gettandosi dal suo ufficio di Milano. Tra le possibili cause emerse, per quanto non del tutto confermata, ci sarebbe stato un’investimento di 70mila euro per i lavori di ristrutturazione di una villa che, in seguito alla liquidazione giudiziale della ditta incaricata ai lavori, rischiava di non avere più indietro. 

Aldilà del singolo episodio che ci ha colpiti tutti profondamente, l’evento ha riportato alla luce un tema che continua ad essere un tabù nella nostra società: il suicidio. E, in particolare, il suicidio associato ai problemi economici. E che il tema sia un argomento ostico di cui parlare lo dimostrano i dati che abbiamo a disposizione. Facendo una ricerca, siamo risaliti a dati raccolti in periodo pre-pandemia: nel 2016 le persone che si sono tolte la vita sono state 3780, di queste il 78,8% dei morti sono uomini. 

«Facciamo una prima precisazione: il tasso di suicidio è maggiore negli uomini, vuol dire cioè che si tolgono la vita più spesso rispetto alle donne, ma i tentativi di suicidio riguardano di più le donne», rivela il professor Massimo Clerici psichiatra e docente ordinario di psichiatria all’Università Bicocca di Milano.

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La pressione sociale della virilità

Ginevra Bersani Franceschetti e Lucilla Peutavin lo chiamano “Il costo della virilità” come il libro da loro scritto, quella pressione sociale che vuole gli uomini forti, di successo, senza mai una vulnerabilità, virili appunto. «Gli uomini si suicidano 3-4 volte più delle donne e le prime cause sono la perdita del lavoro – e dunque dello status sociale – o problemi finanziari – e dunque dello status economico», scrivono le autrici. «Non si può dire che c’è un rapporto causa-effetto diretto», precisa il professor Clerici. Il suicidio cioè non è una diretta conseguenza dei problemi economici, ma è possibile che questi vadano ad aggiungersi a un quadro di vulnerabilità tale per cui la persona non regge il peso degli eventi.  

«La nostra vita è segnata da una serie di traumi che si accumulano nel tempo. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle persone non solo non arriva al suicidio a seguito di un trauma, ma molte di loro non sviluppano nemmeno un disturbo mentale. Spesso riescono a elaborare queste esperienze attraverso una sorta di autoterapia naturale, che permette loro di mantenere equilibrio e funzionalità. Ecco perché dobbiamo essere cauti nell’attribuire un legame diretto e univoco tra gli eventi traumatici e le loro conseguenze, poiché, in base alle conoscenze attuali, non possiamo affermarlo con certezza», aggiunge Clerici.

Eppure è indubbio che la narrazione degli uomini invulnerabili crea una pressione sociale sugli uomini che rende spesso le difficoltà economiche qualcosa di cui vergognarsi. «La virilità è quindi anche l’oppressione dell’uomo sull’uomo», scrivono Franceschetti e Peutavin.

«Per quanto riguarda la pressione sociale che impone agli uomini il successo a tutti i costi, è un fenomeno reale. Questo perché ereditiamo caratteristiche di funzionamento psicologico ed emotivo dai nostri antenati, che vivevano in un contesto primitivo e competitivo. Sin dall’alba dei tempi, il genere maschile è stato orientato verso il raggiungimento del successo in termini sociologici, spesso attraverso la competizione, e queste dinamiche continuano a influenzare la nostra società ancora oggi», spiega il professor Clerici. «Un tempo era la competizione per riuscire a trovare da mangiare e difendere la famiglia, oggi è un successo narcisistico che è un po’ diverso, ma comunque equivalente. Quindi, è chiaro che certi aspetti del funzionamento maschile possono facilitare un certo tipo di rischi, perché la pressione sociale richiede che il maschio funzioni in un certo modo».

«In una società che solo da pochi anni sta mettendo in luce la mascolinità tossica ed il patriarcato, gli uomini hanno ancora il dovere di essere forti e protettivi nei confronti della propria famiglia. Questo lato B del patriarcato, forse ancora non del tutto svelato, ci fa capire quanto il successo sia legato all’identità maschile e quanto il fallimento non possa essere contemplato nel mondo dei principi azzurri», aggiunge Elena Carbone, psicoterapeuta e collaboratrice di Rame. «Ovviamente tutto ciò ha delle profonde ripercussioni sulla salute mentale degli uomini. Non potersi permettere fragilità, vulnerabilità e fallibilità spinge gli uomini a considerare il successo come parte integrante del proprio valore e, nel momento in cui devono affrontare delle difficoltà economiche, come perdere il lavoro o accumulare debiti, sentono di essere soli e di non potersi confidare con nessuno». 

Rompere i tabù: dal suicidio alla mascolinità

Il fallimento economico diventa un’onta, qualcosa da nascondere talvolta anche ai propri familiari. «Si entra in un circolo vizioso depressivo in cui l’impotenza fa da padrona ed in cui il suicidio sembra l’unico modo per uscirne. Gli uomini, educati a “farcela da soli”, non conoscono altre strade per emergere da situazioni economicamente complesse e possono cadere in un tunnel scivoloso in cui si sentono perennemente sbagliati, ma non possono mostrare la loro fragilità. Quindi, da soli si occupano dei problemi economici, cercando di non far emergere preoccupazione e, spesso, anche non limitando le spese dei famigliari per non generare sospetti. Solitamente la situazione non viene condivisa con nessuno fino a quando il peso diventa insostenibile, così si aggrava nel silenzio e spesso conduce al suicidio», precisa la dottoressa Carbone.

«Il dramma è che molte di queste cose non si vedono e non si riescono a prevedere, e quindi, se noi in termini di prevenzione fossimo più attenti ai fattori di rischio che ci portiamo dietro, forse riusciremo a prevedere meglio le reazioni, e questo vale per tutti i sessi e non soltanto per i maschi, le reazioni che derivano dall’incontro con degli eventi di stress», spiega Clerici.

Rompere il tabù del suicidio, parlare più apertamente degli eventi stressanti che seppur non direttamente, possono portare una persona a un gesto estremo, come in questo caso i problemi economici, sono la via della prevenzione al suicidio. Non è un caso se la Legge 3 del 2012 (che ha avuto modifiche nel 2024) introdotta per offrire una soluzione al sovraindebitamento sia comunemente nota come “legge salva suicidi”.

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«Se vogliamo contrastare questa tendenza, dobbiamo iniziare a modificare il modo in cui parliamo di successo e fallimento, smontando l’idea che l’identità maschile debba per forza essere legata alla prestazione economica. Il primo passo è normalizzare la vulnerabilità maschile, il pianto, gli errori fin da piccoli. Dobbiamo insegnare ai bambini che essere uomini non significa essere sempre forti e vincenti, ma essere autentici, sapersi ascoltare e chiedere aiuto quando serve. Se i maschi crescono con il divieto implicito di esprimere le loro emozioni più profonde, da adulti saranno meno inclini a condividere le loro paure e difficoltà. Servono campagne di sensibilizzazione che mostrino come chiedere aiuto sia un atto di forza, non di resa. Dobbiamo creare spazi di dialogo in cui gli uomini possano confrontarsi senza paura del giudizio e in cui il concetto di fallimento venga ridimensionato: non come la fine di tutto, ma come un’esperienza da cui poter ripartire», conclude Elena Carbone.





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