Marion Milner (1900-1998)
Parole chiave Psicoanalisi, creatività, corporeità, gioco, sospensione del giudizio
MARION MILNER
(1900-1998)
di P. FERRI
Alcune cose che so di lei:
Mi piace parlare di un’autrice poco conosciuta e poco tradotta nell’ambito della Psicoanalisi internazionale. Eppure è stata una delle menti più brillanti del gruppo indipendente britannico, ne ha contribuito creativamente ed è vissuta a lungo, tanto da lasciare un’impronta che avrebbe influenzato i pensatori contemporanei (vedi Winnicott) e quelli futuri (dopo Bion, i post bioniani): si tratta di Marion Milner.[1]
Marion Milner
Marion Milner ha vissuto 98 anni (dal 1900 al 1998), iniziando il training presso la British Society nel 1940.
Dopo una prima analisi junghiana, approda a Winnicott dopo una tranche di analisi con Sylvia Payne. Lo abbandonerà dopo quattro anni, perché insoddisfatta, su consiglio del suo futuro analista Clifford Scott, che aveva già analizzato le due mogli di Winnicott. Questi diventerà suo supervisore del caso di Susan, che l’autrice ci illustra, e che Winnicott ospitava in casa, all’occorrenza rifugio per adolescenti e bambini.
Milner, Winnicott e altri psicoanalisti, tra cui Bion, Klein, e Meltzer faranno parte di un gruppo di intellettuali (The Imago group), che si riunirà con regolarità per parlare di musica, poesia, pensieri sparsi e senza finalità. Sarà vicina al gruppo di Bloomsbury, amica di Virginia Woolf, e legata alle correnti dell’empirismo inglese. E’ poco tradotta in italiano e tra le sue opere più note ricordo Le mani del Dio vivente (The hands of the living God, 1969), in cui Milner descrive il ventennale lavoro con Susan e Non poter dipingere del 1950.[2]
Milner compie importanti mutamenti di tecnica, in linea con gli sviluppi winnicottiani, spesso precedendoli. Si riferisce al lavoro con bambini e adolescenti ma anche con pazienti psicotici, e permane il valore del suo approccio per il suo modo di trattarlo nell’hic et nunc della seduta. È opportuno sottolineare che i suoi contributi si collocano in una teoria della conoscenza in cui corpo e mente sono ampiamente intrecciati, in sintonia con il pensiero di Winnicott, che parla di inconscio psico-somatico, il quale incorpora anche il non verbale, e tutto ciò che il paziente e l’analista vivono nel corpo e attraverso di esso. Inoltre tutto ciò che cogliamo nella relazione con il paziente, deve essere accompagnato dalla comprensione di ciò che manca, ciò che non ci appare significativo o che piò risultare omesso. La ricostruzione della storia e dei vissuti del paziente non è mai lineare, e nella seduta il non detto ha la stessa importanza di ciò che viene linearmente esplicitato.
Susan, di cui Milner parla nel libro del 1969, era una ragazza affetta da un grave disturbo psicotico che all’inizio del trattamento aveva 23 anni. Si trattava di una persona con un trascorso infantile di grave traumatizzazione all’interno di una relazione simbiotica precoce e prolungata con una madre schizogena e incoerentemente seduttiva. Quando la madre morì, Susan ebbe un crollo e fu ricoverata in ospedale, dove dopo alcuni mesi fu sottoposta anche a terapia elettroconvulsivante (ETC). Tre settimane, nel 1943, arrivò nello studio di Milner, con l’idea di aver perso l’anima e che il mondo non era più fuori di lei. Winnicott stesso come già detto, supervisiona il caso di Milner.
L’analisi di Susan
Nei primi sette anni di trattamento, Milner utilizza una tecnica psicoanalitica classica (interpretazioni precoci del transfert e dei contenuti inconsci) alla quale però Susan non risponde con alcun miglioramento.
Poi, improvvisamente, dal 1950, Susan inizia a disegnare a scarabocchio e a portare dei disegni alla sua terapeuta (saranno oltre 4000), che li accetta con gratitudine e facendone tesoro. Milner quindi accetta materiale che proviene ‘da fuori della seduta’, contravvenendo in questo modo già a una regola più o meno esplicita presente nel setting tradizionale. Si rende conto infatti che tramite il disegno Susan sta creando un importante ponte con lei.
Milner (co)crea così gradualmente una tecnica efficace nel facilitare Susan a fare esperienza di un legame simbiotico; un legame, che a differenza di quello con la madre biologica, è ora con un oggetto empatico, affidabile e coerente. La relazione con la terapeuta permette a Susan di interiorizzare un ’esperienza benigna e di rafforzare gradualmente un sé differenziante e infine, raggiungere una esistenza separata. Il trattamento si conclude vent’anni dopo il suo inizio, periodo durante il quale Susan riesce a passare dall’essere tanto disturbata da non riuscire nemmeno a fare qualche passo per strada, senza essere accompagnata, a essere serenamente sposata e mantenere un lavoro stabile. Milner capisce che, quando un paziente porta in seduta materiale significativo e descrive stati emotivi estremi ma le interpretazioni di transfert non sortiscono effetti positivi, il terapeuta dovrebbe porre maggiore attenzione al proprio vissuto nel qui e ora della seduta per scoprire così di essere tenuto completamente fuori dal quadro (picture) della situazione analitica fatto dal paziente. A livello controtransferale, Milner talvolta sente di non essere presente nella seduta con Susan e talaltra che neppure la paziente lo è. Adottando un approccio problematizzante, Milner formula ipotesi alternative rispetto alla psicoanalisi classica per uscire dall’impasse del processo terapeutico. Così, quando Susan risponde alle sue interpretazioni dicendole costantemente che lei (Milner) è una sciocca (fool), non legge più questo fatto come una resistenza nevrotica, ma sente che c’è qualcosa di più complesso che accade nella coppia analitica, e comincia a visualizzare uno scenario diverso, dove i suoi commenti possono acquistare una concretezza clinica e un graduale significato simbolico.
Da questa nuova prospettiva, i disegni che Susan ha iniziato a portare in seduta a partire dal 1950 acquistano un valore diverso e più profondo proprio perché vanno al di là del ragionamento logico. Incentra il racconto sui disegni, li considera contenere in forma altamente condensata l’essenza di ciò che la coppia analitica sta cercando di capire. Arriva a vedere i disegni come il linguaggio privato della paziente, che chiunque voglia aiutarla deve imparare a leggere.
Milner parla della fatica nel proprio controtransfert. Ciò che accade in seduta solleva il problema di come collegare aree della propria esperienza personale e clinica con le teorie psicoanalitiche correntemente accettate, o con teorie rivisitate che siano accettabili dal mainstream psicoanalitico. Ovvero, come giustificare il cambiamento di tecnica in termini di teoria della tecnica psicoanalitica?
Serve abbandonare il primato delle parole e della visione monopersonale dell’analista per aprirsi a forme di comunicazione altre, non esclusivamente verbali. La direzione indicata da Milner è quella di superare la falsa contrapposizione tra ‘work’ e ‘play’ (1977). Nella pratica clinica, ciò significa chiedere al paziente adulto di dire, o a quello bambino di fare, qualsiasi cosa si sentano di dire o di fare (Ogden, 2018), al fine di meglio comprendere ciò che i pazienti cercano di comunicare nel contesto di come vedono il significato della loro vita.
Un ulteriore aspetto del cambiamento risiede nel fatto che questi disegni sono doni di Susan all’analista, che quest’ultima accetta con gratitudine e facendone tesoro. Questo è di rilievo perché nel setting analitico classico il donare è un’azione a senso unico: l’analista dà interpretazioni al paziente (che possono essere accettate o rifiutate) in base al materiale presentato in seduta, ma il paziente non dà nulla di concreto all’analista (eccettuato l’onorario), anche se l’analista può utilizzare il materiale prodotto dal paziente in seduta. Tale reciprocità nel dare e avere sottende uno status di equality tra Milner e Susan e permette a Susan di non considerarsi del tutto inutile. I disegni sono dei punti di collegamento. Quello dell’analista è un “creative surrender” (Milner, 2010) e diventa un atto trasformativo ed evolutivo. Questo passaggio non rappresenta quindi una sorta di ‘sconfitta’ o debolezza, ma ritrova un suo fondamento nel richiamo alla necessità di una differenziazione in cui il vuoto e il niente sono la premessa di qualunque successiva presenza. Ciò significa anche che in alcune situazioni cliniche, è necessario lasciare insoddisfatto l’impulso ansioso a organizzare logicamente il materiale portato dal paziente e tollerare una unorganized and undifferentiated ‘mess’ phase of how the therapist experiences the relationship with the patient (Milner 1969), proteggendo attraverso una cornice adeguata (fatta anche di silenzi lunghi l’intera seduta) il suo sperimentare uno stato di oneness, così da poter tornare successivamente a una dualità.
Milner si mette in gioco riconoscendo il contributo creativo che l’analista è chiamato a dare, anche in termini di rinuncia a un potere conoscitivo onnipotente. Spesso quello che si può fare è sedersi tranquillamente ‘tenendo’ la paziente con calore, il che non è sempre facile poiché spesso siamo oggetto di rabbia o altre forti emozioni negative. A differenza delle interpretazioni, tale presenza psico-fisica durante l’incontro sembra raggiungere la paziente attraverso canali non verbali quali lo sguardo o una presenza psicofisica intima e non intrusiva.
Anche il tacere diventa un elemento positivo perché lascia a terapeuta e paziente lo spazio di non sapere e di cercare di sapere, ognuno da solo e al contempo in collaborazione con l’altro. Gradualmente Milner arriva a capire che esiste un tipo di vuoto o di assenza di percezione che può essere di valore e può costituire una fase necessaria in un processo creativo, come un campo lasciato a maggese (Khan, 1977).
E’ necessario passare attraverso una fase di relazione con il terapeuta in cui quest’ultimo sostiene l’illusione di onnipotenza primaria del paziente (Milner, 1952). Dal punto di vista del terapeuta questo significa permettersi di essere più uno ‘strumento’ che un ‘creatore,’ lasciando questa funzione ai pazienti stessi. L’incontro con un ‘pliable medium’ può modificare l’ambiente interno di quei pazienti la cui strutturazione è avvenuta nel doversi adattare a un ambiente familiare non sufficientemente buono, per cui era stato loro necessario mettere in atto uno sviluppo precoce dell’Io, con funzione di difesa controllante rispetto alle loro vicende di vita familiare e sociale (le dinamiche genitoriali, le separazioni, la guerra, ecc.).Con Susan, Milner aveva spesso la sensazione che fosse quasi come se la paziente rivendicasse che la vita adulta di ognuno dovesse essere sempre libera da preoccupazioni e spontanea, come lo è quella del neonato cui la madre fornisce tutte le cure.
La possibilità di sperimentare un incontro pliable, ossia flessibile, con una differenziazione ‘morbida’ dei confini, non appare frutto di un desiderio regressivo di tornare indietro (movimento questo impossibile nel tempo, quindi patologico), ma piuttosto di tornare a contatto, almeno in parte, con ciò che era stato di ostacolo nel passato. Neppure l’analista è fuori da questo ‘stare nella corporeità’ e questo diventa un elemento della teoria della cura: evitare l’intellettualismo di una terapia fondata sulle parole e non incarnata psicofisicamente. Qui Milner si affaccia su territori poco battuti dagli psicoanalisti, fino ad allora, quali la possibilità di imparare deliberatamente a rilassare l’intero corpo, e la incapacità di taluni pazienti (vedi Susan) di sentire il peso del corpo sul lettino o i propri piedi a contatto con il suolo; o il direzionare deliberatamente l’attenzione sulle varie parti del corpo in contatto con la poltrona/lettino come modo per ottenere tale rilassamento. Milner si sente a poco a poco, in contatto con la paziente in un modo mai esperito prima e non sente più il bisogno di fumare.
La dialettica tra oneness e twoness (ossia tra la sensazione di unicità e quella di essere in due) è un parametro fondamentale da analizzare al fine di comprendere le possibilità di contatto e di comunicazione nella coppia paziente–terapeuta. Serve interrogarsi sull’uso che possiamo fare noi oggi del pensiero di Milner, con quali dei suoi concetti ci si può incontrare in un rapporto creativo che sia attuale e utile nella contemporaneità con le coordinate antropologiche specifiche della cultura occidentale, come ci suggeriscono Gamba e Stefana (2024).Sappiamo con Winnicott (1958), ma forse lo sappiamo anche grazie ai contributi della Milner che se non abbiamo avuto una madre sufficientemente buona la nostra capacità di separazione, ossia di definizione identitaria autonoma, non sarà favorita. La buona madre è colei che permette al bambino di sperimentare la sensazione di non avere un limite e di poter usare il mondo circostante, e in primis l’oggetto materno.
L’analista, nel percorso terapeutico dovrà essere in grado di accettare il vuoto e la non conoscenza, tipici della condizione regressiva che deve potersi creare, tollerando l’attesa che pensieri ed emozioni si possano esprimere nel paziente, e condividere con lui/lei, la sospensione di memoria e desiderio (per dirla con Bion, 1962). L’analista deve farsi usare, ed essere oggetto di imitazione. Occorre imitare per essere come ci dice Eugenio Gaddini (1980), come primo step pre-identitario. L’identificazione è un processo secondario che definisce la nostra separatezza e capacità critica. Milner ci ricorda che ciò che ha a che fare con gli stati fusionali può essere esperiti in seduta, anche come sensazione di eccitamento corporeo e il setting terapeutico diventa un campo di costruzione somatico-semantico.
Milner anticipa il concetto di oggetto transizionale (lo descrive nel 1950, mentre Winnicott ne parlerà compiutamente nel 51): esso costituisce il ponte tra me e te, tra il non me e il non te, ed è lo spazio di nascita del Sè. L’area primaria dell’illusione, altro concetto esplicitato compiutamente da Winnicott, corrisponde in buona parte a questa possibilità fusionale, e non sarebbe da superare per accedere al pensiero logico come pensava Freud, ma verrebbe ad essere qualcosa che va conservato e integrato con quello che diverrà pensiero cosciente. Senza lo stato di indifferenziazione, senza l’annullamento della mente nel corpo, e senza concentrazione reciproca, la creatività non avrà possibilità di formarsi.Milner, anticipando quella che sarà una idea di Wilfred Bion, ci dice che selezioniamo l’esperienza in base alla nostra mentalità, e non il contrario, come comunemente si pensa. Anche nella scelta del materiale clinico da trattare, generalmente viene esposto quello che conferma le nostre teorie pre-esistenti. Al paziente va lasciato fare ciò che vuole, e l’analista deve sentirsi vivo, realizzato e pieno lui stesso nella relazione con lui/lei. Milner ci parla di una seduta in cui non sente il bisogno di fumare, come se l’interesse per quello che avviene fosse già saturante, e sufficientemente riempitivo.
La psicoanalisi non è una cura, ci ricorda poi Milner, ma mette il paziente nelle condizioni di curarsi da solo. Ci avviciniamo alla moderna Psicoanalisi esperienziale ed ontologica (Ogden, 2022) E’ importante quello che si costruisce in seduta, quello che avviene nel campo analitico a cui la coppia dà senso e consistenza, al di là della “ricostruzione” storica, pure importante, della vita infantile e dei traumi del pazienti. La creatività è la cura, e si colloca nella dimensione transizionale, nell’area intermedia tra le mie fantasie e le tue. E’ importante ribadire che la psiche non esiste senza il corpo; nel corpo risiede l’Inconscio. (Freud, 2015) Milner collega il suo non saper dipingere ad altre simili incapacità (On not being able to paint -1950), quali la difficoltà personale del bambino X che viene accompagnato per un sostegno scolastico: la ragione dei suoi sintomi sta in un ambiente caratterizzato dalla guerra e dalla conseguente separazione dal padre. Milner si concentra sul non noto, su ciò che rimane fuori, qualcosa ‘being left,’ che si pone come un ostacolo ed è osservabile come non-capacità, inibizione, blocco. Ha un giovanile interesse verso la scuola di Maria Montessori, famosa pedagogista italiana per cui la creatività e le possibilità dei bambini devono essere facilitate nel loro esprimersi anziché costrette da rigidi canoni adultiformi. La malattia non è isolabile nel sintomo, e occorre un interesse profondo e totale per la persona.
Più problematica è la vicenda con chi ha apparentemente cancellato o mai edificato alcun mondo interno. Parlo dei pazienti ritirati, silenziosi, chiusi in una dimensione forse autistica. Anche in questo caso bisogna trovare il bandolo della matassa che possa aiutarli a uscire dalla passività: occorre diventare una presenza attiva, molto concentrata e paziente, che propone vie d’uscita creative a tollera anche il tempo spesso muto che precede la nascita di qualche cosa da cui poter partire: uno scarabocchio, um gemito, un verso, un pensiero sconnesso, un abbozzo di gioco, una libera associazione. Tutto verrà nel nuovo campo condiviso, comprese le interpretazioni non solo basate sulle difese o sulla ricostruzione del passato, ma anche su quello che sta accadendo nel qui e ora, insieme, nella possibile co-costruzione di significati.
Ricordo un supervisore che criticò il fatto che io avessi permesso a una paziente di leggermi in seduta le lettere inviate a un amico, non limitandomi a chiederle di raccontarmele, e non volendo puntare immediatamente alla interpretazione delle stesse, ma in primis alla possibilità di creare uno spazio di condivisione tra me e lei. Lo stesso per quanto riguarda l’uso della chitarra (io sono musicista) con un bambino che cominciava ad accogliere la possibilità di dedicarsi a questo possibile mezzo di espressione. Trovo invece utili questi strumenti per ridefinire un legame simbiotico con il/la paziente. L’analista, a differenza di quanto avvenuto con le figure primarie, diviene un oggetto empatico, affidabile e coerente. La dimensione corporea è fondamentale per questi pazienti e fonda il nostro senso identitario. La paura della paziente nel caso di Susan è anche che il suo corpo possa andare in pezzi e non possa ricomporsi in un modo nuovo (1969). La sensazione di una certa falsità all’interno delle sedute deriva da questa difficoltà della coppia al lavoro di sentirsi bene nel corpo, a proprio agio e “se stessa” durante le sedute. La fatica del processo di individuazione si riflette o nasce prima di tutto nel corpo che ha qualcosa a che fare con il non essere stati sufficientemente coccolati o “tenuti” o compiaciuti da piccoli. La mancanza di una fusione idealizzante e di una holding rassicurante e illusoria, ha generato una rottura nel senso di sé, che va radicalmente ricostruito, o re-inventato.
Con i bambini scopriamo la possibilità di usare il nostro corpo per farlo stare maggiormente a proprio agio, facilitando così una comunicazione più sincera.
Stefana A, Gamba A. (2024), Marion Milner, a Contemporary introduction (Routledge ed 2024. London), Journal Child Psychoterapy (on line, 2025).
Bibliografia
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[1] Ferri P- Book review-Marion Milner–A contemporary introduction Journal Child Psychoterapy – on line, Routledge 2025.
[2] Ringrazio il collega e amico Alessio Gamba, con cui ho diviso anni di lavoro nella Neuropsichiatria infantile di Monza, che insieme ad Alberto Stefana, psicoterapeuta e ricercatore universitario, ha scritto il libro Marion Milner, a Contemporary introduction (Routledge ed. 2024)
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