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Va esclusa l’automaticità del risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale.
Nota a Cass. (ord.) 29 ottobre 2024, n. 27867
Fabrizio Girolami
Il pregiudizio subìto dal lavoratore a seguito di demansionamento e dequalificazione non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27867 del 29.10.2024 in relazione alla vicenda di un lavoratore sanitario assunto nell’anno 2005 dall’Azienda Policlinico Umberto I di Roma, con mansioni di operatore tecnico per assistenza (OTA), il quale, a seguito di qualificazione, era stato inquadrato in un livello superiore, come operatore sociosanitario (OSS). Tuttavia, egli non era stato mai adibito alle mansioni superiori acquisite ed era stato trasferito al reparto oftalmico, svolgendo mansioni estranee al suo nuovo profilo di inquadramento.
Il lavoratore aveva agito in giudizio al fine di ottenere una declaratoria di accertamento di mobbing, demansionamento e dequalificazione, con conseguente richiesta, da un lato, di condanna dell’Azienda ad assegnargli le mansioni proprie e, dall’altro, al risarcimento dei danni subiti.
Nel giudizio di merito, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 4122/2015, aveva ordinato all’Azienda di adibire il lavoratore alle mansioni superiori acquisite, rigettando invece la domanda risarcitoria. Tale decisione era stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 4823/2018.
La Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, confermando la sentenza impugnata ed osservando, in particolare, quanto segue:
- secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. (ord.) 31.7.2024, n. 21527, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale “e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché “non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale”;
- pertanto, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per demansionamento e dequalificazione non è automatico in caso di inadempimento del datore di lavoro, dovendo il lavoratore, per cui non è sufficiente la mera dimostrazione della potenziale lesività della condotta datoriale, provare il danno non patrimoniale e il nesso di causalità con l’inadempimento del datore di lavoro.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 29 ottobre 2024, n. 27867
Fatto
Con ricorso al Tribunale di Roma A.A. ha rappresentato che:
era stato assunto nel 2005 dall’Azienda Policlinico Umberto I, quale operatore tecnico per assistenza, inquadrato nella categoria B;
nel 2008, a seguito di corso di qualificazione, era stato inquadrato nel superiore livello BS come OSS (Operatore socio sanitario);
aveva lavorato presso l’Unità Plasmaferesi, senza essere mai stato adibito alle mansioni superiori acquisite;
era stato trasferito al reparto oftalmico, ove aveva svolto mansioni amministrative estranee al suo profilo;
vi era stata una volontà persecutoria della P.A. nei suoi confronti.
Ha chiesto l’accertamento della responsabilità di controparte per mobbing, demansionamento o dequalificazione, con condanna ad assegnargli le mansioni proprie e a risarcire i danni patiti.
Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 4122/2015, ha ordinato alla P.A. di adibire il ricorrente alle mansioni BS del profilo di inquadramento, rigettando ogni altra domanda.
A.A. ha proposto appello.
La Corte d’Appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 4823/2018, ha rigettato l’appello.
A.A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
L’Azienda Policlinico Umberto I di Roma si è difesa con controricorso.
Diritto
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001 e 2103 c.c. in quanto la corte territoriale avrebbe dovuto accertare il danno e liquidarlo, eventualmente anche in via equitativa tramite presunzioni.
Nella specie, sarebbe mancata totalmente la motivazione del rigetto del suo primo motivo di appello, concernente il mancato riconoscimento del danno.
La doglianza è inammissibile.
Innanzitutto, il ricorrente non ha colto la ratio della decisione, che non ha omesso di determinare il danno e di quantificarlo, ma ha preso atto che il medesimo ricorrente aveva proposto un appello generico sul punto, omettendo ogni allegazione in ordine alla perdita di chance e all’impoverimento professionale e, quindi, per quel che concerne i caratteri del pregiudizio risarcibile.
In particolare, la Corte d’Appello di Roma ha affermato che il gravame non si sarebbe confrontato con la puntuale motivazione della sentenza di primo grado, limitandosi a sostenere che un testimone avrebbe evidenziato le condizioni di lavoro del ricorrente e che la mancata adibizione alle mansioni proprie avrebbe impedito la sua crescita professionale.
Peraltro, la decisione contestata è conforme all’orientamento della S.C. per la quale, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass., Sez. L, n. 21527 del 31 luglio 2024).
2) Con il secondo motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965, 32 Cost. e 2087 c.c. in ragione della violazione della normativa in tema di danno differenziale in presenza di un fatto causativo integrante gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio.
La doglianza è inammissibile, non avendo il ricorrente colto la ratio della decisione.
Indubbiamente, la giurisprudenza ha affermato che “In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno c.d. differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’INAIL, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso” (Cass., Sez. L, n. 12041 del 19 giugno 2020).
In particolare, ha chiarito che le somme eventualmente versate dall’INAIL a titolo di indennizzo ex art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. n. 1124 del 1965 e, in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio, alla verifica dell’applicabilità dell’art. 10 del decreto citato, ossia all’individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (c.d. danni complementari), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile; ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell’eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall’INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, e a quest’ultimo accertamento procederà pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, e anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo stesso (Cass., Sez. L, n. 9166 del 10 aprile 2017).
Nella specie, la corte territoriale ha ritenuto che il danno in esame rientrasse “nella copertura assicurativa Inail” e che il ricorrente non avesse dedotto “le circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio”.
A fronte di queste considerazioni, però, l’istante nulla di specifico ha allegato, neppure riportando il contenuto dell’atto di appello nella parte rilevante, con conseguente inammissibilità del motivo.
3) Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
– dichiara inammissibile il ricorso;
– condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compenso, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
– attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.
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