Una via di Kabul.
Alberto Cairo, dal 1990, coopera in Afghanistan, con Croce Rossa Internazionale e con la ONG italiana Nove, per l’assistenza sanitaria e sociale di donne e di persone disabili e in povertà. Risponde alle domande – mentre si trova per qualche giorno in Italia – sulla situazione di un Paese dimenticato dalla comunità internazionale.
- Caro Alberto, ci siamo conosciuti nel 2021 all’indomani del ritorno dei talebani a Kabul. Allora eri spesso intervistato in Radio e Tv. C’è ancora attenzione per l’Afghanistan e per il tuo – e vostro – lavoro?
L’Afghanistan non è certamente un Paese al centro della attenzione, né in Europa né altrove. Mi pare di avvertire persino una sorta di irritazione quando parlo dell’Afghanistan e dei problemi della gente con cui convivo e vivo da 35 anni.
Il fatto che non se ne parli in Tv non significa che vada tutto bene. Si sa che non è affatto così: farlo rilevare – sicuramente in mezzo a tanti altri gravissimi problemi internazionali – fa scattare, appunto, una sorta di irritazione. La situazione è pesante. Noi che lavoriamo là, accusiamo questa “dimenticanza”.
- Questo vuol dire che il sostegno alle vostre attività di cooperazione va scemando?
Il disinteresse per l’Afghanistan corrisponde alla pochezza dei fondi messi a disposizione delle ONG in Afghanistan, sia da parte degli Stati e degli Organismi internazionali, che delle Fondazioni e degli Istituti privati.
Un colpo molto duro è arrivato, proprio in questi giorni, dalla sospensione dei fondi USAID decisa dalla nuova amministrazione americana. Molte organizzazioni, direttamente e indirettamente, ne sono toccate: ad esempio l’italiana INTERSOS che ha dovuto interrompere parte delle sue attività e licenziare dipendenti.
- Lo Stato afghano è in grado di intervenire autonomamente sulla sanità e sul sociale?
Lo Stato afghano stanzia un budget molto limitato. Perciò la sanità funzionante è sempre meno pubblica e sempre più privata ma chiaramente per chi se la può permettere. Le condizioni di un miglioramento della assistenza pubblica sono riposte nel miglioramento economico generale del Paese, cosa di cui ora non si vede alcun presupposto. Ci sono in corso contatti con la Cina. Ma la Cina fa principalmente investimenti, non donazioni. In ogni caso è troppo presto per notare qualche risultato. I servizi fondamentali dipendevano solo dall’aiuto internazionale.
- I 9 miliardi di dollari che dall’Afghanistan si trovano nelle banche occidentali e, in particolare, statunitensi, sono mai stati restituiti?
Assolutamente no, anzi, l’amministrazione Trump sta dicendo che il Governo dei talebani deve restituire l’equivalente delle armi, delle postazioni e dei dispositivi militari che l’esercito americano ha lasciato in Afghanistan nel 2021. Non solo non viene restituito nulla, ma all’Afghanistan si chiedono soldi: figuriamoci.
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- Quale rapporto causa-effetto vedi tra l’isolamento internazionale e la chiusura dei talebani?
Sicuramente un rapporto c’è. Dire Governo dei talebani – lo abbiamo capito anche questa seconda volta – vuol dire dittatura teocratica e quindi difficoltà di dialogo. Ma, dall’altra parte – cioè, dalla parte dei Paesi occidentali – si è fatto, secondo me, il grande errore di chiudere la porta e di non tentare un vero dialogo.
Se si ha veramente a cuore a cuore la sorte della popolazione afghana, il dialogo va tenuto in vita per quanto sia difficile e malgrado i contrasti su questioni cruciali come quella delle donne e dei diritti civili.
- La gente afghana cosa sa di tutto questo e cosa ne pensa?
Gli afghani percepiscono di essere stati abbandonati dal mondo. La loro consapevolezza è aumentata rispetto al passato. Perché negli anni ’90 – nel primo regime dei Talebani – c’era chiusura e assoluta mancanza di mezzi di comunicazione: alla gente era dato ben poco da sapere e da capire. Mentre oggi con la rete internet – a cui, almeno una parte degli afghani è collegata – un po’ tutti vedono il mondo e sanno, più o meno, cosa vi succede. E ciò non fa che aumentare il senso dell’abbandono a sé stessi.
- Una ragione in più – per te – per restare là?
In un certo senso sì: dopo tutti questi anni, ho stretto un legame molto forte con le persone e col Paese. Come lasciarlo in un momento ancora così grave? Ho sempre lavorato nella speranza di vederlo, un giorno, “rifiorire”. Non so se vedrò questo giorno. Non penso. Ma sento di doverci sperare, continuando il mio lavoro.
- Ci ricordi di cosa precisamente ti occupi? Fai cose nuove?
Mi occupo di persone con disabilità fisiche determinate da cause varie: guerre o malattie quale la poliomielite. Mi occupo, in particolare, della riabilitazione delle persone con lesioni midollari (paraplegiche) e di reinserimento sociale attraverso formazione professionale, microcredito, impiego e sport.
Lo sport per persone disabili è la più nuova delle attività. Per anni ne ho ignorato le potenzialità. Ed è qualcosa che – tra tanto dolore – dà gioia, sia a me che alle persone che lo praticano.
La ONG Nove realizza attività specifiche per le donne con gravi difficoltà economiche, ad esempio donne vedove, donne capo-famiglia con bambini da crescere o donne in altre situazioni difficili. Lavoriamo per la promozione di semplici, ma essenziali, progetti di vita: ci sono donne che insieme gestiscono forni per cuocere il pane sia per i propri figli che per gli abitanti del proprio rione o villaggio. Tanta parte della gente afghana può vivere soltanto di queste piccole ma preziose iniziative.
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- Quali sono le difficoltà di lavorare nel Paese dei talebani?
Per una organizzazione come Nove che lavora principalmente per le donne, non è affatto facile operare in un regime che impone norme restrittive proprio per le donne. L’istruzione femminile, dopo l’equivalente della prima-seconda media, è vietata. L’impiego femminile è limitatissimo e solo in precisi, esclusivi, ambiti. Le procedure imposte dal Governo rallentano i nostri progetti: ogni passo deve essere autorizzato.
Ma ci sono pure delle “falle” nel sistema talebano, in cui è possibile “infilarsi” per lavorare a favore della popolazione. Mi spiego con un esempio. Qualche tempo fa, come ONG Nove, siamo andati in una zona rurale ad est del Paese, verso il confine col Pakistan, controllata dai pashtun – cioè l’etnia talebana dominante – per un progetto di piccola imprenditoria femminile.
Ebbene, le autorità della regione chiedevano di organizzare un corso di alfabetizzazione per le donne. Ciò dimostra che tra la regola generale che vieta e la sua applicazione nella realtà ci sono spazi in cui è possibile lavorare per portare il nostro aiuto. Le possibilità di intervento dipendono poi da zona a zona, da città e campagna, e da tanto altro.
- Che differenze ci sono tra le città e le campagne?
Nelle regioni periferiche c’è chiaramente meno controllo centrale, perché molto più dipende dai governatori e dai capi-villaggio. Le esigenze sono diverse. Nei villaggi è raro che ci chiedano programmi di formazione femminile, semmai ci chiedono assistenza sanitaria perché lontana e difficilmente accessibile.
Nelle campagne le donne si muovono in spazi quasi unicamente domestici: non sentono l’esigenza di andare a scuola, e non perché non lo vogliono i talebani che sono al governo; semplicemente le famiglie non le mandano a scuola.
- La condizione delle donne resta la più grave?
Sì, le donne afghane vanno aiutate a sopravvivere rispettando, giocoforza, le dure – e per noi spesso incomprensibili – regole imposte dai talebani.
- Mi dicevi del divieto – per noi davvero incomprensibile – di ascoltare musica. È ancora così?
Sì, in pubblico è ancora così. È un vero peccato, perché l’Afghanistan ha una forte tradizione musicale. Nelle case, in realtà, nessuno va a controllare se si ascolta musica o meno. Resta l’assurdità.
C’è anche il divieto di fare foto, ossia di produrre immagini di esseri viventi, persone e animali. Ma, paradossalmente, quando vado, ad esempio, ai tornei di basket per disabili che organizziamo nei territori, vengo circondato da talebani che chiedono di fare il selfie con me, coi loro telefonini.
Dunque: queste regole sono contraddittorie per la stessa popolazione.
- Quanto la religione determina la vita pubblica in Afghanistan?
Tutto ha a che fare con la religione così come concepita dal regime talebano. Non c’è autorità talebana – anche di chi non ha una vera formazione religiosa – che non si faccia chiamare mullah o malawi. L’autorità viene dalla religione. Le regole della vita sociale e personale vengono dalla religione. I talebani si ritengono interpreti fedeli del Corano, anche se rappresentano l’unico Paese musulmano al mondo a proibire l’istruzione femminile.
Ci sono, quindi, scuole di religione – madrasa – ovunque in Afghanistan: scuole dei diversi orientamenti e delle diverse etnie. Divenire mullah è motivo di innalzamento sociale e politico. Nei ministeri ci sono persone non dotate di particolari competenze tecniche, ma ben riconosciute sul piano religioso.
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- Quali etnie e visioni dell’Islam sono presenti in Afghanistan?
Le principali etnie sono quattro: i pashtun – da cui i talebani – costituiscono l’etnia maggioritaria e sono sunniti; poi ci sono i tagiki, sempre sunniti; quindi, la minoranza hazara sciita e la minoranza uzbeka sunnita. Gli hazara – in quanto sciiti – sono i più malvisti e discriminati.
- Ci sono talebani che la pensano in maniera diversa da altri?
I due principali gruppi talebani sono quello radicato in Kandahar e quello detto haqqani della regione di Khost. Entrambi partecipano al Governo, ma con forti tensioni tra loro.
Sebbene non confermato da alcuna fonte ufficiale, nelle scorse settimane, mentre il Ministro degli Interni, Sirajuddin Haqqani, era all’estero, si sarebbero verificati violenti scontri fra i due gruppi, col prevalere del gruppo di Kandahar, il più intransigente sia in fatto di divieto della istruzione femminile che di freno alle attività delle ONG internazionali. Ciò ingenera nuovi interrogativi sul nostro prossimo futuro.
- È ancora in atto una fuga di popolazione dall’Afghanistan?
Lasciare il Paese è divenuto pressoché impossibile. Riesce chi può contare su appoggi interni ed esterni e chi ha i mezzi. L’Iran respinge i migranti e la Turchia pure. I viaggi in mare sono pericolosissimi. In tutta Europa – come in Italia – non c’è nessuno pronto ad accogliere a braccia aperte gli afghani.
- Qualcosa di nuovo può venire dai giovani afghani?
I giovani più preparati – una minoranza – ormai se ne sono andati nel 2021 e subito dopo. Parecchi sono invece integrati nel sistema talebano, sia per convinzione che per ragioni etniche o per convenienza economica.
- Non hai timore – per te stesso – nel ritornare in Afghanistan tra pochi giorni?
Non ne ho mai avuto ragione e non ne ho tuttora. Il mio lavoro e dei miei colleghi è sempre stato apprezzato dalla gente e dalle autorità che si sono succedute al potere. Operiamo alla luce del sole per il bene degli afghani in difficoltà. Ma tutto può effettivamente cambiare e tutto può sempre accadere.
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