“Silencio”. Il sipario che si chiude, le palpebre che calano e inizia il sonno – e il sogno. Silenzio, come una poesia sospirata, il mutismo di un corpo che si disarma. Non c’è più niente, eppure è tutto. Lo schermo buio, come nella peggiore miticizzazione delle sale vuote. Così, David Lynch è andato via, portando con sé, lontano da questo vecchio mondo barbuto, le note di un cinema della magia, dell’illusione e, in evoluzione, della speranza; il reale che sgocciolava, amorfo, dai cristalli onirici di una mente in tempesta.
È il 16 gennaio 2025, quando inizia a dilagare per il web la notizia della morte, a settantotto anni, del regista delle apparenze disvelatrici. Enfisema polmonare: chiaro! Fumatore incallito quale David era. D’altronde,
“Il fumo è come una bella donna, l’ami ma ti rendi conto che non è quella giusta per te. La lasci. Poi cominci a vagheggiarla, ti rendi conto che la tua giornata è triste senza di lei. E pian piano dimentichi guai e tormenti, incominci a scriverle, a pregarla di tornare con te. L’amore fa male, ma la mancanza d’amore ancora di più”
(Videtti, 2011).
È un dolore che poco si può spiegare, a parole, e che, come un film, deve camminare sulle sue proprie gambe (cfr. Lynch, 2009) ed essere protetto dalle intemperie di una realtà sociale che vorrebbe portarne alla luce i dettagli e le metamorfosi interiori, deteriorandone l’esperienza, che si consuma nell’ombra. E questo dolore fenomenico muta, di corpo in corpo, non possedendo, di fatto, forma alcuna, se non quella che esiste nell’angoscia dell’opera, e tuttavia possedendo forme potenzialmente infinite, perché mediante possibilità composto e dunque di sua propria infinità costituito (cfr. Kierkegaard, 2024). Esso trae dimensione dal luogo endogeno che abita, dal modo percettivo che lo sfiora, dall’individuo che lo esperisce. Allora, l’onda d’urto mediatica (e spirituale) che genera la morte di Lynch costituisce un vero e proprio trauma personale, dilaniato in una infinità di corpi differenti, tanto da assumere sembianze impersonali e sino, dunque, a diventare un vero e proprio trauma collettivo, oggettivo, nonché una perdita mondiale. Per molti, è la fine di un’era. Per altri – e per chi scrive – è la morte del cinema, tanto più dell’arte. Ma perché tutto questo?
Perché Lynch non registrava, ma dipingeva e, nelle sue follie atemporali, vigeva sempre un germe di realtà, cui si poteva (e si può) giungere, soltanto attraverso un percorso fortemente irrazionale, a ritroso nel tempo, di riflesso – come insegna Mulholland Drive (2001). In fin dei conti, la realtà in quanto vita è, per certi versi, irrazionale, giacché non tutto quel che accade è strettamente riconducibile a una certa razionalità. L’apollineo sfuma nel dionisiaco e i tentativi di costruzione di un’epica mitologica della realtà si scontrano correntemente con il carattere romanzesco della società moderna. Se quel che possiamo pensare è reale, tanto vale credere che anche un bel pensiero irrazionale possa avere la sua buona dose di razionalità.
Pitture silenti
So This Is Love. Così Lynch dipingeva l’amore, nel 1992; in apparenza cupo, ma incredibilmente romantico, come un bimbo che se ne sta seduto su un muretto, con gambe da gigante, ad abitare il cielo. La sua casina, piccina, è laggiù, forse anch’essa non proprio sulla terraferma, giacché pare essere tutto cielo, anche se potrebbe essere, in prospettiva, tutta terra. Cosa l’amore, se non una spinta elevatrice, tra il cielo e la terra? Una forza irrazionale che ci sprona a guardare, oltre noi stessi, gli altri. Così, l’aereo vola, di passaggio, davanti agli occhi di quel bambino, che pare seguirlo, che pare sognarlo. L’assurdità di un amore così buio ma non cieco sembra sconvolgere il tentativo interpretativo, ma questo perché dell’amore, come del dolore, si fa esperienza e la sua rappresentazione è, per l’appunto, il tentativo di proporre di esso una forma del sentire, che non altro è se non l’istantanea di un pensiero, che produrrà a sua volta “istantanee per contatto” con altre menti. So This Is Love è l’immagine in negativo dell’infanzia di Lynch, come egli stesso dichiara in un’intervista con Katrine McKenna, riportata in Perdersi è meraviglioso.
“L’aereo ci metteva tanto ad attraversare il cielo, e il rumore che faceva era molto sommesso. Il mondo sembrava più silenzioso quando passava”
(Lynch, 2017).
In questa stanza rumorosa che è divenuto il mondo, è nel silenzio che, per Lynch, si contempla l’amore, in quanto luogo magico in cui si realizza il processo creativo (cfr. Videtti, 2011). L’amore, allora, è creazione, o meglio: possibilità di creazione, che è anche libertà. E il fatto che questo silenzio sia fatto di un piccolo suono lontano, lascia pensare che questi flebili rumori di fondo abbiano il compito di segnalarne la presenza. Si pensi al più banale degli esempi: il cinguettio mattutino di qualche passero solitario. Quanto è densa la quiete di quegli istanti?
Il mondo sembra essere stato messo, finalmente, a tacere. È forse per questo che Lynch dichiarava di amare l’atmosfera losangelina: la compattezza sonora di quelle “malattie metropolitane” è capace di creare tanto un isolamento come schermo, quanto un avvicinamento, nell’avvertimento frammentario e casuale delle pulsioni di Eros e Thanatos, dagli stimoli e agli stimoli che una tale metropoli provoca in un individuo influenzabile, nel senso di sensibilmente trasportabile: aperto alla vita. È la legge dei grandi paradossi esistenziali: sentire tanto, da non sentire più niente; un’innervatura narcotica che dona due possibilità: soccombere o rinascere.
Sentieri difficili
La ricerca della calma ha condotto sin da sempre Lynch in territori inquieti, asfissianti e non è un caso che sostanzialmente tutti i suoi dipinti non siano affatto l’emblema della calma olimpica, benché egli ne riferisse la sensazione pacifica e rassicurante che gli rilasciavano. È il comportamento di un uomo in pace coi suoi incubi o, se non in pace, in gentil convivenza, tanto da dipingerli su pellicola, materializzarli in un modo, per quanto sconcertante, altamente affascinante. I suoni, i colori, le deformazioni spazio temporali, la sovra eccitazione sensoriale dei suoi film, le sequenze distopiche di Lost Highway (1997), il rosso, il blu e quei pochi colori primari abusati, che contribuiscono alla costruzione atipica di un universo in tenebrosa tensione: si tratta di dettagli che assumono significati allegorici portanti dell’opera di Lynch; il male che imperversa, che insegue gli individui, è una vera e propria ossessione animale. La surrealtà con la quale Lynch tratta queste questioni scatenate del genere umano evoca spettri reali di danze macabre e fantasmatiche di sensi, che corrono impavidi per quelle strade tanto care a David, sui quali asfalti si versano sempre tante lacrime, benché esse, alla fine, non conducano mai da nessuna parte. La strada è allora un mezzo di esplorazione dei confini tra il mondo esteriore e quello interiore: non un elementare mezzo di trasporto, ma un elemento che obbliga i personaggi a confrontarsi con le loro fobie recondite, le frustrazioni e le voglie, in quanto luogo simbolico di transizione e dunque di crisi, perché ogni cambiamento è, in potenza, una catastrofe. L’assuefazione per amekhania (Ἀμηχανία) genera individui fagocitati dalla mondanità, irriverenti alle norme e al buon costume, come larve indisposte alla modernità.
L’asfalto plumbeo che corre rapido sotto ai nostri occhi nell’incipit di Lost Highway torna, ad anello, nel finale della pellicola, marcando, così, l’assenza di una direzione univoca e precisa, lo smarrimento di un uomo che corre via dai suoi lemuri che, con costanza, bussano alla sua porta. Una Cadillac scintillante sfreccia sulla famosa Mulholland Drive, quasi in apertura dell’omonimo film, quando si verifica quello che rappresenta l’effettivo incidente scatenante, che dà avvio alla degenerazione degli eventi; il casus belli dell’amnesia della giovane donna bruna. La strada è, ancora una volta, e più esplicitamente, luogo di frantumazione identitaria. La selva che la pseudo Rita percorre è il dipinto romantico della decadenza dei meandri dello spirito. L’innocenza è perduta, ai margini di una realtà inconsistente che, attraversato il Viale del Tramonto, si rivela tragicamente perversa.
Nelle due stagioni classiche di Twin Peaks (1990-1991), un boschetto contorna la Loggia Nera: è la via d’accesso, il sentiero travagliato che sembra attraversare, in un taglio netto, la corporeità del cosmo e arrivare al punto d’accesso per un’altra dimensione, che forse non è che un prolungamento onirico di quella strada. La Loggia Nera esiste al di fuori delle concezioni aristoteliche di tempo e spazio, come un luogo liminale, dove il male si propaga per onde concentriche, in una paradossale forma pura e incontaminata. La Loggia Nera ci appartiene: abita in noi come noi abitiamo in essa, se scegliamo di intraprendere quello strambo viaggio attraverso il buio della nostra mente.
Lì, la realtà, per rivelazione, si scompone, dando vita a proiezioni interiori, dove ogni cosa è possibile ma anche incomprensibile. Il male abita gli uomini. Gli americani credono sia fuori dalle loro case, dai loro confini strutturali, dalle frontiere puritane, ma il male non è straniero, né per me né per te. Il maligno cova odio e discordia tra le carni del nostro intelletto corroso. Il male è dentro, non fuori – sinché fuori non lo si conduce, distruggendo. Allora, vorrà dire che non avremo imparato niente dal nostro dolore, né tantomeno da quello altrui.
Paranoie urgenti
Come una strada acciottolata, abitata dai recessi ridondanti della psiche, che sempre vivono, anche quando muoiono, il cinema di David Lynch non può avere fine. L’opera d’arte parla di per sé; è per questo che cammina sulle proprie gambe: perché ha il compito di continuare a svelare al suo spettatore aneddoti di una vita che ha vissuto o che avrebbe voluto vivere, elementi quotidiani di un autore che ha nascosto o che ha appositamente lasciato circolare, ante e post mortem. Il cinema è pittura e la pittura è un’arte carnale, tattile e materica, proprio come le mistificazioni mature di Mulholland Drive o quelle forse ancor più intense dell’antico Eraserhead (1977). Io credo all’alieno perché io sono l’alieno, l’ho prodotto, conservato, nascosto, finché non mi ha fatto a pezzi, avvilito, confuso, sostituito. La mente che cancella: il desiderio assurdo di tramutare la propria testa in una gomma in grado di cancellare il turbinio cerebrale, i mostri, le presenze spettrali, quelle ombre che – ricorda ancora Lynch – ci costituiscono. Non dovremmo aver paura di quel che siamo, eppure lo facciamo, perché troppo spesso quel che siamo non corrisponde al nostro desiderio esistenziale, che ci ostiniamo a credere di non poter trascendere. Eraserhead è il film più intimo, nonché autobiografico, di Lynch. Nella grigia Philadelphia, città senza amore, ai margini di una deplorevole industriosità, Lynch, come il più ingenuo dei bambini, sperimentava quella umana paura di non farcela, di non fuoriuscire dalla grigia quotidianità delle cose e anzi restare incastrato in un limbo come il più abietto uomo delle soglie. E nel terrore di non emergere sulla sfera cinematografica, ecco che, quasi per trasfigurazione estatica, nacque Eraserhead: per il vano tentativo di eliminare i pensieri, le ossessioni e le paranoie di una creatività insolente, Lynch dà nomi e figure alle sue angosce, che mutano in forme arcane, nella più surrealista delle messe in scena. È straniante, eppure, in quel mondo siffatto e costruito, ha senso. Un collage di incubi, si potrebbe pensare, ma in verità Lynch dichiara di non aver mai attinto dal suo “metabolismo onirico”, se non una singola volta: in Blue Velvet (1986) (cfr Lynch, 2009).
Allora, la testa di Henry che rotola via su quella scacchiera, che tanto ricorda una loggia, per lasciare il posto, là, sul suo collo, alla testa del suo bambino alieno è pura fantasia, macabra creazione di una coscienza onirica in stato di veglia. Così, Lynch gioca a rendere il suo cinema ininterpretabile o assolutamente interpretabile, dipendentemente dagli sguardi che riflette. La sostituzione della testa umana con la testa aliena, allora, può indicare la sovrapposizione delle due entità che, sebbene inizialmente slegate, esse sono lo stesso e identico individuo, nato e abortito, e, per riconciliarsi, hanno ognuna bisogno di perdere qualcosa: il corpo e la testa, il sapere fisico e quello spirituale. D’altra parte, non risulta poi così complicato ritenere che tale perdita della testa sia anche una perdita di senno e quindi, in questo caso, dell’identità genitoriale che sfuma via, precipitando in quella filiale, nel tentativo di dedicare, talvolta involontariamente, la propria vita al proprio figlio, sino alla claustrofobia emotiva. D’altronde un figlio, diceva Sartre, non è altro che un mostriciattolo fabbricato dai nostri adulti rimpianti. Il surrealismo è quindi una delle voci primarie dell’opera lynchiana, nonché, a mio avviso, la sua storica chiave di lettura o di perdizione, tanto che si potrebbe riconoscere una vera paternità del nostro regista sulla capacità di trasporre l’aspetto onirico (il negativo della vita) sullo schermo. Cinema surrealista è anche cinema di oggetti, sensi attribuiti, simboli, icone e forse pochi indici. Gli oggetti di Lynch sono varchi: contengono l’idea riflessa della nostra personalità o il più becero dei nostri capricci; ci permettono di sognare – e di lasciarci andare. Come correlativi oggettivi, essi esprimono temi, emozioni e concetti astratti che, altrimenti, resterebbero impliciti. Si tratta di oggetti quotidiani, che Lynch, spesso non volontariamente, investe di significati anche lontanissimi da quel che, in realtà, essi sono, e li trasforma in simboli dei quali si ciba la narrazione, che di conseguenza si stratifica.
Silenzio, si mente!
Si potrebbe fare cenno al rosso e al blu: due colori primari, drasticamente opposti: il rosso è la materia, il blu è lo spirito. Rosso è vita, passione, amore ma anche rabbia e sangue; il blu è la calma, la fiducia, il mare piatto in cui cullarsi, il silenzio. Ma il blu è anche la melanconia, il tradimento e la depressione. Lynch utilizza questi due colori in modo compulsivo. Quella del club Silencio (Mulholland Drive, 2001), in questo senso, è una scena topica. La macchina da presa si immette, velocemente, nel club. L’insegna a neon “Silencio” è blu. Rebekah, incorniciata da tende scarlatte, indossa un abito rosso, è truccata di rosso; neon blu tremolano, circondati dal buio ombroso della scena. Sui volti degli spettatori, sfumature violacee riflesse. La donna dai capelli blu è glaciale. È la morte, è il silenzio, correlata alla zia Ruth, dai capelli rossi, morta. Il rosso e il blu influenzano l’atmosfera delle opere del regista e si imprimono, con prepotenza, nelle retine degli spettatori. Lynch utilizza in modo così diffuso questi colori, perché asserisce loro la funzione di àncora emotiva: semplificano, in un certo senso, le possibilità interpretative, collegando l’evento al colore di rappresentanza.
Il Silencio Club è un luogo surreale, tutto luci e apparenze, ologrammi, forme. La performance “live” di “Rebekah Del Rio” che canta Llorando (un’interpretazione a cappella di Crying di Roy Orbison) nonostante non ci sia musica dal vivo, enfatizza il tema del trucco e della falsità, riflettendo la natura illusoria di Hollywood e, più in generale, della percezione umana. È il correlativo oggettivo della disillusione: il disincanto della vita, dell’arte e del cinema. Scegliere di guardare un film è scegliere di lasciarsi ingannare: la stessa emozione che, talvolta, ne consegue, è falsa nella sua verità. Il pianto di Betty e Rita è reale, liberatorio più che consolatorio; un pianto scaturito da uno spettacolo che non esiste: finto. Questo perché le emozioni nascono sempre dall’esterno e si insinuano dentro di noi. Dentro, di nostro, abbiamo ben poche cose: è il mondo che ci riempie.
La sequenza al Silencio Club ha del metafisico, oltre che del metacinematografico. Denota un cinema che si veste degli sguardi dei suoi spettatori, che son quasi dei fedeli, dinanzi alla più artificiosa delle Chiese. La citazione esplicita alle lacrime di vetro (Glass Tears, 1932) di Man Ray è emblematica: Lynch ha elevato a icona Rebekah, la sua voce solinga, l’intensità del suo sguardo che vive e si nutre di quella rappresentazione, e il film stesso. Le lacrime di Rebekah del Rio come quelle di Lee Miller: lacrime in apparenza, cristallizzazione di un dolore primordiale, false, tra make-up e glicerina; di vetro perché vuote, trasparenti, rifugio per le apparenze, frutto di una certa apatia o di una finta commozione. Dunque, se vuote, facili da colmare, intercambiabili. Se quel dolore è il nulla, vuol dire che può divenire il tutto e può diventare di tutti. Chiunque può riflettersi in quegli specchi, chiunque in quella sofferenza, proprio perché non appartiene a nessuno. Di riflesso, la verità inspiegabile del pianto delle due protagoniste.
Il tema del sogno distrugge e incanta, nel più potente disincanto del reale; e questo cinema è grande, proprio perché è reale, anche quando non lo è. Rivela, intensamente, il conflitto tra realtà e illusione. Diane lotta, nel tentativo di distinguere cosa sia reale o meno, confondendo il sogno d’essere Betty con la sua vita vera, di fallimenti e rimorsi. La scena onirica del club Silencio fa perno proprio su questa tematica dell’apparenza, sottolineando quella linea fragile tra la consistenza della sostanza oggettiva e l’inconsistenza della chimera soggettiva. No hay banda. Tutto suona e non suona nulla. Rebekah canta e non canta, piange e non piange. Lo spettatore piange, perché sceglie di credere in un qualcosa che già primordialmente si è palesato falso, surrogato del reale, simulacro. Gli uomini amano l’impostura. È per questo che facciamo cinema.
Un ultimo canto
David Lynch non era solo un regista, ma un alchimista delle immagini, un profeta della realtà interiore che ha saputo scrivere sulla tela cinematografica con lo stesso sgomento con il quale dipingeva e scolpiva la sua stessa anima. La sua carriera, segnata da un approccio unico e audace al cinema e alla televisione, ha ridefinito il concetto stesso di narrazione visiva, portando alla luce una dimensione inquietante, misteriosa e allo stesso tempo seducente del nostro inconscio. Con la sua morte, allora, si bolla la fine di un’era di sperimentazione, in cui l’estetica e il significato si sono, per tempo insistente, intersecati in modi che non si erano mai visti prima. Più di Luis Buñuel, più di Salvador Dalí. Se è vero che la nostra vita non ci appartiene, allora è l’arte stessa ad aver perso la vita, ormai. L’impeto, l’animosità, il genio creativo si liquefanno nel pensiero di un’arte senza artista, come un Dio dimenticato, che non sa più con chi parlare. Siamo quello che ci manca, giacché riconosciamo nell’altro di cui ci innamoriamo, in cui ci proiettiamo, quel tassello mancante della nostra identità. Ci sbricioliamo nel mondo, col rischio di restare insani, ma profondamente vivi. Lynch si è condiviso, traboccando frenesia, nella sua ossessiva ricerca della calma, di una pace ancestrale che riflettesse il chaos, elevandolo a grazia assolutamente divina, occasione di meditazione e misticheria. Questa sua assurda generosità costituisce gran parte del suo lascito, che trascende ogni singola opera. La sua arte espansa è la rappresentazione di un sogno in continuo mutamento, una realtà distorta ma incredibilmente lucida, dove l’inconscio umano trova forma, anche se per un istante impreciso e irresoluto. La possibilità di quella forma aspirata costituisce un primo stadio di identità e questo ha fatto Lynch: sparso per il mondo possibilità frammentarie di ricomporre quantomeno l’ipotesi di una propria costellazione identitaria. E gli uomini, nonostante la paura, sono tormentati dal desiderio di conoscersi (e di ri-conoscersi).
Pur restando radicato nel suo tempo, Lynch ha saputo anticipare e trascendere le mode, per arrivare a una vera e propria fuoriuscita del medium, iniettato nel reale, tanto che a Parigi, ad oggi, vive il “Club Silencio”, luogo in cui l’idea si fa tangibile, l’onirico rompe le soglie e arriva a confondersi con la normale vita quotidiana, con una normale serata in discoteca. È questa una delle fenomenali sopravvivenze di Lynch: un locale da egli stesso disegnato, in un film e poi fuori dal film; un night club nel cuore di Montmartre, quartiere degli artisti, capace di raccogliere la feccia della terra, ma anche i suoi più illustri perbenisti, in fuga dalle proprie ombre e puntualmente immersi in esse. Così, gli “umani troppo umani” di Lynch, i quali,sempre troppo o per niente loro stessi, non si redimono quasi mai.
Addio, Lynch. Alla tua visione unica del mondo, che era critica sociale e al contempo ricerca puntigliosa di socialità, intesa propriamente come connessione, nonché del sostrato che regge questo straccio di universo, nella sua segreta pluridimensionalità. Alla tua pazza arte, che ci ha invogliati a guardare oltre la superficie, al di là delle apparenze, eppure anche ad albergare in esse. Al silenzio denso come i marmi delle chiese, nella speranza di scorgere nei comuni giorni scialbi una qualche tensione latente, sulla scia di Twin Peaks, che ha fatto della serialità televisiva un’opera d’arte, mescolando l’assurdo con il quotidiano, l’orrore con la magia. Addio alla concreta indecenza dei tuoi misteri e addio alla tua “voce”: capacità indiscussa di costruire immagini diventate parte integrante del nostro immaginario collettivo, come il fuoco che brucia sul volto di Isabella Rossellini in Blue Velvet. Questa estetica, a cavallo tra il sublime e l’orrido, ha ridefinito la bellezza stessa, insegnandoci che l’arte può essere disturbante, perturbante, ma mai noiosa. Non è mai solo ciò che vediamo, ma quel che ci lascia dentro, il modo in cui ci trasforma. Con Lynch, va via quella dimensione del cinema che rifiuta ogni certezza, quella che ci fa sentire l’ansia di un mondo in perenne frantumazione. Un flamenco tra il conscio e l’inconscio, dove l’inquietudine diventa bellezza e la violenza emotiva si trasforma in poesia. Oltre ogni parvenza, in un mondo che tende a rifuggire la complessità, Lynch ci ha invitato ad esplorarla. E in questo processo, ha offerto anche una forma di redenzione, una sorta di liberazione: accettare le ombre per vedere la luce.
“«Cosa credi che accada dopo la morte?»
«È come andare a dormire dopo un giorno di intensa attività. Nel sonno accadono molte cose, poi ci si sveglia e c’è un altro giorno di attività, per come la vedo io. Non so esattamente dove si va, ma ho sentito delle storie su quello che succede, e non c’è dubbio che quella di morire sia la paura più grande. Non sappiamo nemmeno quanto ci si metta a morire. Se uno smette di respirare sta ancora morendo? Come facciamo a sapere quando ha finito e lo si può portare via? Le religioni orientali dicono che all’anima servano alcuni giorni per uscire dal corpo, e ho sentito dire che è un processo doloroso. Devi sfilarti, per così dire, dalla tua esistenza terrena. È come togliere il nocciolo a una pesca acerba»”
(Lynch, 2017).
Titoli di coda: “buonanotte”
Ci piace pensare che David non sia propriamente morto, ma sia precipitato nella sua scatola blu, alla ricerca di nessuno sa che cosa, ma magari volontariamente, per sapere come ci si senta a svegliarsi e ritrovarsi un altro. D’altra parte, più concretamente, vogliamo credere che le note della sua musica – si intende la sua opera, che egli stesso affermava prendesse vita dalla musica (cfr Daniele Dottorini, 2004) – riecheggeranno in occhi nuovi, pronti, un giorno, a vedere il mondo non solo così come è, ma per come potrebbe essere: un sogno di pace da cui non vorremmo svegliarci mai. Ed è non dimenticando quanto di più caro ci hai insegnato, che la bellezza nasce spesso dal chaos e la verità, per quanto difficile, è sempre più affascinante di una qualsivoglia finzione, che, nel dubbio della tua re-esistenza, ti auguriamo “buonanotte”, David Keith Lynch.
Letture
- Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova, 2004.
- Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Sellerio, 2024.
- David Lynch, Perdersi è meraviglioso. Interviste sul cinema, Minimum Fax, Roma, 2017.
- David Lynch, In acque profonde, Mondadori, Milano, 2009.
- Giuseppe Videtti, Il sogno di David Lynch: “Facciamo sparire il rumore”, la Repubblica, 10 dicembre 2011.
Visioni
- David Lynch, Strade perdute, Raro Video , 2016 (home video).
- David Lynch, Eraserhead, CG Entertainment, 2019 (home video).
- David Lynch, Velluto blu, MGM, 2020 (home video).
- David Lynch, Mulholland Drive, Leone Film Group, 2022 (home video).
- David Lynch, Twin Peaks – La collezione completa, Paramount, 2021 (home video).
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