la fuga del torturatore libico

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Esistono cause di giustificazione rispetto all’obbligo internazionale, le scriminanti. Che non sono la “ragion di Stato”. Valgono per violazioni delle leggi dello Stato, per i contratti, ma anche per i Trattati

Il generale libico Nijeem Osama Almasri, colpito da mandato di arresto della Cpi è stato liberato, dopo un fermo eseguito dalla polizia giudiziaria, per il congiunto operare dei ministri Nordio (mancata interlocuzione del ministro con la Procura generale, mancata convalida del fermo nelle 48 ore da parte della Corte d’Appello di Roma che hanno portato alla scarcerazione del generale) e Piantedosi (predisposizione di un volo di Stato per l’espulsione e il rimpatrio in Libia), con la logica supervisione della Presidente del Consiglio dei Ministri.

Almasri è additato da una certa stampa e osservatori politici e di partito come assassino, torturatore, boia e stupratore di bambini. Da altra stampa e altri commentatori come indagato per i fatti di omicidio, tortura, stupro, e ulteriori delitti. Le uniche garanzie che gli spettano sembrano essere quelle dello Statuto di Roma, firmando il quale gli Stati che lo hanno ratificato si sono spogliati di quasi tutta la loro sovranità. Non valgono per lui le normali regole della estradizione, cioè dell’habeas corpus, previste nei rapporti internazionali diversi da quelli interni all’Ue (tra Stati dell’Unione si applica il Mae, mandato di arresto europeo, nel quale le forme appaiono più snelle a ragione della fiducia reciproca, senza nessuna discrezionalità politica ministeriale). Vale invece uno speciale procedimento di cooperazione, che nella sostanza è una estradizione, anziché su input di uno “Stato” richiedente, su input della Corte penale internazionale. Gli internazionalisti affermano che lo Stato richiesto (se è tra quelli che hanno ratificato lo Statuto di Roma) ha l’obbligo di consegna senza valutazioni politiche discrezionali. Non farlo sarebbe un inadempimento del Trattato e un illecito internazionale.

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Eppure, esistono le cause di giustificazione rispetto all’obbligo internazionale. Le scriminanti. Che non sono la “ragion di Stato”. Valgono per violazioni delle leggi dello Stato, per i contratti, ma anche per i Trattati. Nel caso della vera e propria estradizione il nostro codice di procedura penale prevede all’art. 697, co. 1-bis, la seguente regola: «Il Ministro della giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato». Tuttavia, questa disposizione non è stata richiamata dalla legge che dà esecuzione al Trattato di Roma in materia (che peraltro richiama altre norme del nostro codice), cioè dalla l. 20 dicembre 2012, n. 237. Del resto, non si possono interpretare i Trattati internazionali alla luce di normative nazionali statali, perché ciò è escluso dalla Convenzione di Vienna sui Trattati internazionali del 1969, in vigore dal 1980.

L’art. 697 c.p.p. non esprime una semplice normativa nazionale, nella parte in cui contiene il rinvio a una vera e propria causa di giustificazione che opera anche in ambito internazionale. Per diritto consuetudinario. E che, come tale, non ha bisogno di essere richiamata dalla normativa che adegua il nostro ordinamento al Trattato di Roma (la citata l. 237 del 2012). Le scriminanti operano comunque in via generale. E tra queste si potrebbe pensare allo stato di necessità (che la sicurezza nazionale potrebbe evocare). La domanda con riguardo al caso specifico è: ricorreva una tale situazione? E se sì, perché non è stata eccepita e palesata? Probabilmente perché non sussisteva o non era stata veramente all’origine delle decisioni prese? Se così è, saremmo di fronte a un fatto “non giustificabile” in termini tecnici.

Rimane allora lo spazio per una decisione politica, che non costituisce certo una scriminante, anche se spiega bene i fatti e chiarisce altresì perché non abbia senso affrontare la questione in termini di pura criminalizzazione degli organi dello Stato. Purché questi ultimi diano una spiegazione al congiunto operare verso un reimpatrio premiante, e non certo escludente, del generale libico. Mentre se il fatto fosse solo un episodio di una più generalizzata elusione dei provvedimenti della Corte, saremmo di fronte a una vera rottura politico-culturale del fronte del contrasto alle violazioni più gravi dei diritti fondamentali, in forza del diritto penale internazionale.

A tale riguardo vale qui osservare un dato che il sistema della Corte penale internazionale non considera ed è divenuto di estrema attualità. Catturare un generale libico come Almasri è atto di rilevanza politica. Non meramente giurisdizionale. Il processo diventa politico. La CPI realizza sempre processi di questo tipo. Non più contro i “vinti” di regimi conclusi, ma contro persone fisiche il cui operato coinvolge Stati o regimi in carica. Non è la Corte costituzionale. Le sue scelte di incriminare sono solo alcune di quelle possibili nel mondo. Sono scelte anche politiche. Oggi c’è un cambio di passo.

Gli Stati sono chiamati a nuove collaborazioni che nel 1998 non erano chiare o attuali. Nel 1998, quando venne sottoscritto lo Statuto di Roma, si pensò di giurisdizionalizzare tutto (in maniera peraltro imperfetta), ma questa scelta presenta alcuni aspetti problematici. Il potere ministeriale di rifiutare una consegna gestibile in bonam partem, a favore dell’estradando o della persona da consegnare, dopo il controllo giurisdizionale, per quanto possa essere abusato, resta una garanzia in più in suo favore. Certo che se l’estradando è qualificato come un “criminale” assassino e “stupratore di bambini”, un simile discorso vacilla. Eppure, l’estradizione potrebbe anche essere richiesta (e rifiutata) a seguito di un giudicato, mentre qui discutiamo solo di una misura cautelare in una fase preliminare del procedimento. Tuttavia, è difficile condividere la giurisdizionalizzazione di tutti gli atti di rilevanza internazionale. Il controllo giudiziario, sì. E dunque la motivazione degli atti. Ma non la riduzione dei governi a puri esecutori di ordini esterni.

Sotto questo profilo, l’autodifesa del Ministro Nordio, che ha motivato in Parlamento una serie di rilievi formali e sostanziali relativi al provvedimento della Corte, appare meritevole di considerazione, anche se potrebbe riflettere una costruzione difensiva pensata a posteriori. Non altrettanto difendibile, invece, appare il successivo rimpatrio con aereo di Stato, che dimostra, da parte del governo nel suo complesso, una volontà politica di non collaborazione con la Corte, o comunque una distanza: perché c’erano i modi per recuperare il mancato arresto, laddove la tempistica del rimpatrio rivela una fretta al cardiopalma di garantire l’impunità al generale e non invece la sicurezza nazionale compromessa (sic) dalla sua presenza nel nostro territorio.

Diverse ragioni di “sicurezza” non sono state dette. E qui si innesta il tema del rapporto tra inadempimento internazionale e criminalizzazione della politica.
Qualcuno ha scelto di iniziare e anche di condizionare tutto il dibattito attraverso un atto di criminalizzazione. È sempre il diritto penale che viene usato per il controllo della politica, e magari per sconfiggere gli avversari. Questo modo di operare si chiama giustizialismo: l’uso della legge penale come strumento di lotta politica. A nessuno è sfuggito che gli incolpati hanno subito percepito solo questo dato, giocando di anticipo con una comunicazione massmediatica di forte impatto dell’avviso di garanzia ricevuto dalla Procura di Roma per reati di favoreggiamento personale, peculato e omissione di atti d’ufficio.

Avere esordito col penale, al solito, ha alterato tutto. Gli accusati non potevano più esporre difese o spiegazioni senza doversi consultare con un avvocato difensore e hanno dovuto scegliere argomenti utilizzabili anche in un giudizio penale. In questo gioco al massacro, dove moralisti e cinici si sono contesi il dibattito, la sorte peggiore è toccata ai diritti fondamentali. Il Governo ha dimostrato tutta la sua lontananza culturale dalla Cpi, dallo Statuto di Roma, che non ha mai compiutamente attuato nell’ordinamento interno, lasciando senza disciplina nazionale i crimini contro l’umanità. Noi sappiamo che l’esistenza di una alta corte internazionale in materia è garanzia di protezione dei diritti fondamentali e anche della pace. È il modello kantiano contro il modello Vestfalia. Infatti, sono gli Stati che più storicamente si espongono a continue azioni militari, le quali vìolano per definizione i diritti umani delle popolazioni, a non avere mai ratificato (e talora neppure sottoscritto) lo Statuto di Roma. Poiché siamo convinti di questa distanza culturale, non abbiamo difficoltà ad ammettere per conseguenza che avere favorito l’espulsione e l’impunità del generale Almasri non deve essere qualificato come un atto di favoreggiamento personale in senso tecnico da parte dei ministri.

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Le condotte ipotizzate hanno sicuramente contribuito, sul piano oggettivo, ad aiutare la persona ad eludere le investigazioni della Corte penale internazionale. Ma il delitto di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) non prevede solo un elemento oggettivo di tipo materiale. Esso richiede un elemento soggettivo basico, tipico, che muta per effetto del contesto politico delle posizioni di Governo. Già la volizione della condotta tipica non è costituita dalla semplice volontà di aiutare un indagato a fuggire. Se era nei poteri del Ministro sindacare la congruità giuridica della richiesta della Cpi, viene meno il semplice elemento soggettivo di voler aiutare qualcuno a eludere le investigazioni. Quel fatto non è neppure più un aiuto tipico, e dunque non è un “favoreggiamento” sul piano oggettivo-soggettivo della tipicità del reato, venendo meno l’obbligo giuridico di richiedere la misura coercitiva sollecitata dalla Cpi nei tempi richiesti. La discrezionalità tecnica di non attuare pedissequamente un ordine della Corte penale elimina il fatto omissivo di non aver richiesto una misura cautelare. Ma rimane invece l’aiuto oggettivo, materiale, commissivo, che il volo di Stato messo a disposizione rende incontestabile.

Qui occorre verificare se si tratti di condotta giustificata, scriminata: perché il fatto oggettivo è di aiuto, non bastano le valutazioni tecniche a eliminare il fatto. Occorre accertare a chi sia ascrivibile la condotta commissiva e se sia giustificabile. Potrebbe, in mancanza di vere cause di giustificazione, essere spiegabile solo politicamente. Ma tale scelta renderebbe altrettanto politico un eventuale giudizio penale, sì da eliminare la valenza tipica dell’elemento soggettivo che sorresse la condotta di aiuto. Non si tratterebbe, infatti, di un processo contro uno o più ministri che abbiano agito “privatamente” per aiutare un indagato, o “abusando” dei loro poteri, ma di un processo alla rivendicazione di un certo uso politico dei poteri ministeriali, resa possibile da una diversa, pur censurabile, ma comunque controversa interpretazione dei limiti della giurisdizione internazionale di fronte ai controinteressi nazionali.

La responsabilità politica, invece, è piena e segna uno dei momenti più bassi nella gestione dei diritti umani da parte dello Stato italiano. Non è la liberazione di un possibile autore di crimini internazionali a preoccuparci – la Corte ne lascia ogni giorno impuniti tanti, non esercitando l’azione penale – ma l’insensibilità, la sordità, il disprezzo, variamente emersi da parte di alcune forze politiche governative, per la cooperazione internazionale nel contrasto ai crimini che sono forse gli unici a giustificare pienamente la potestà punitiva, essendo in gioco, su larga scala (la CPI persegue solo crimini commessi su larga scala) non la tutela “universale” contro le maternità surrogate, ma la protezione nel mondo, e comunque la promozione culturale, dei diritti fondamentali più importanti di popolazioni e di moltitudini, oltre che degli individui.



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