Sanremo 2025 è finito ma già tracima, tra il trash – che in Rai non aveva più da anni e anni, ancor prima della sua morte, un cervello come Tommaso Labranca per sublimarlo- e il pop al ribasso in questa odierna “Domenica In” che sarà maratona fino al Tg1, anche a prezzo di numerosi “Ho sentito un rumore in garage” tra i suoi spettatori.
Ha vinto Olly e l’Italia si accorge improvvisamente di quanto conti, fuori dalla macchina “televisiva” del festival, l’industria della musica “scoprendo” Marta Donà (una molto apprezzata dal giornalismo che governa il piccolo schermo, come dimostra un post di Enrico Mentana) che già stava dietro le vittorie dei Maneskin, di Marco Mengoni e di Angelina Mango. Stritolato (per modo di dire) da questo meccanismo nel voto finale il grossetano Lucio Corsi, ma anche lui ha un suo ruolo nel disegno complessivo della musica italiana. Farà comunque bene la sua strada, se l’industria lo vorrà.
Una vittoria che dice come la Rai, in tutto questo, è solo un docile “imbuto” per le strategie di questa economia (vale oltre 4 miliardi di euro), indifferente a edizioni “irrituali” o democristiane come questa costruita da Carlo Conti, perché alla fine sono solo un tappeto scorrevole che guida agli incassi che si faranno sulle piattaforme dove la musica si vende sul serio. Intanto, anche i giornaloni scrivono oggi del Conti che è banalmente normale, all’interno di rubrichette frettolose che subito “scendono” online e perdono peso sotto ai luccicanti articoli che celebrano il primo strato del racconto festivaliero. Conti ha fatto il suo lavoro, capovolgendo il racconto kafkiano del cavaliere con il secchio e infilandoci dentro 65 milioni di euro in incassi pubblicitari.
In generale, il giornalismo fuori e dentro le porte dell’Ariston non ha dato una sua buona performance. Imbarazzanti al limite del lecchinaggio molte delle domande poste durante le conferenze stampa di ogni giorno, ridicole la gran parte di quelle poste agli artisti in gara o a tutti quelli che vi giravano intorno, per sapere ossessivamente, per esempio, se qualcuno di loro volesse mandare un bacio a Giorgia Meloni. Roba da giullari, più del conduttore del festival contento di esserlo. Più difficile esercitarsi nel provare a far capire agli italiani cosa è davvero una rassegna del genere, quanto vale sul serio per rinunciare ad occuparsi d’altro.
Perché l’Italia e il mondo, nel frattempo, ieri sera andavano avanti. Gli attentati all’estero, i morti che avevano l’età dei minorenni portati sul palco oppure quella della mamma di Cristicchi (già scomparsi dalle prime pagine dopo essere stati intossicati in una delle 91 Rsa di una holding che macina denaro anche all’estero), i poveri che si sparavano a Milano, il papa che non ha visto la puntata finale di Sanremo ma oggi ha ringraziato gli artisti che si adoperano per dare uno sguardo ai sofferenti.
Simone Cristicchi – l’ottimo lavoro di Marta Donà lo dimostra e forse pochi lo prevedevano – non poteva vincere. Lui lo sapeva, più che alla mamma cantava a se stesso di “fare il bravo”. Come noi tutti che abbiamo guardato per cinque interminabili serate Sanremo 2025. E i sentimenti – aveva precisato Willy Peyote – “non sono buoni investimenti”.
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