Le piazzette mancate, la sterilità dello spazio urbano e gli uffici tecnici buoni a spendere e inaugurare
" data-image-caption="" data-medium-file="https://www.corrieretneo.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-16-at-09.24.59-300x200.jpeg" data-large-file="https://www.corrieretneo.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-16-at-09.24.59.jpeg"/>Le città hanno bisogno di continue cure e spesso di adattamenti funzionali.
Le città cambiano forma, si degradano e la loro rigenerazione è l’obiettivo più ricorrente. Nelle periferie, spesso diventate limiti senza forma. Nella città consolidata, satura, compressa, in attesa di un diradamento. In quello che una volta era conosciuto come centro storico, ormai abbandonato, qualche volta trasformato in ghetto: del turismo, degli abbandonati, degli anziani, del commercio. Fuori, oltre lo spazio canonico, piccoli eventi: un ponte, una masseria, un filare, una sorgente, un tempio.
Questi spazi ibridi, irrisolti, stratificati per caso, pieni di innesti e sovrapposizioni, sono pur sempre, nella letteratura corrente, i luoghi della rigenerazione. Un bombardamento di piccoli progetti che hanno come scopo la riqualificazione ma che finiscono per impoverire la città, quella che abbiamo ereditato.
Mancano tre cose.
La visione d’insieme, la qualità del progetto, l’utilità dell’intervento. Aree verdi che diventano parcheggi, piazze che diventano aree verdi, e parcheggi che diventano piazze. In pratica il festival del “comunque cambiamo qualcosa”. Una frenesia della politica che ha come scopo lasciare un segno, una traccia della propria esistenza. Per sostituire comunque qualcosa con qualcos’altro. Un colore, un materiale, un disegno. E la cosa più semplice è dedicarsi agli spazi pubblici, strade e piazze in particolare. Facili da trasformare, semplici da gestire, anche con piccole risorse finanziarie.
Slarghi, corsie, intersezioni urbane.
Piccoli gesti che andrebbero pensati diversamente. Ma questi luoghi del progetto diventano l’occasione per eliminare alberi o aggiungere alberelli. Eliminare fontane o aggiungere fontanelle. Quando va bene. E come nella migliore tradizione, almeno dalle nostre parti, pavimenti in pietra lavica e cotto siciliano, infarcite di geometrie ormai diventate linguaggi localistici. Una mancanza di coraggio disarmante, tutto realizzato nell’ottica della più scontata e ovvia soluzione progettuale che rende tutti felici.
Ma le piazze, i luoghi della socialità e delle relazioni erano e sono altro.
Non sono pavimenti e aiuole, non sono pali e alberelli, non sono disegnini freudiani dove trovano casa i ricordi personali di chi li ha pensati. La rivoluzione industriale, le nuove norme sui cimiteri, la nascita del tempo libero e delle vetrine dei negozi, i nuovi sistemi di mobilità, le innovazioni tecnologiche sull’illuminazione e sullo smaltimento delle acque, le trasformazioni sociologiche, commerciali e tanto altro sono alla base della metamorfosi dello spazio urbano. Oggi tra nuove modalità della socializzazione, considerato la presenza dei social, dei cambiamenti climatici, del commercio online, della mobilità sostenibile, viene da pensare che lo spazio pubblico e la sua trasformazione non può restare incastrato a un modello che appare evidentemente obsoleto.
Gli spazi pubblici, quello che chiamiamo “abitare collettivo”, come piazze, slarghi, strade, parchi ecc. dovrebbero essere il tema più iconico in una città. L’occasione per sperimentare e consolidare l’idea di rete, di network, di sistema. Creando quelle relazioni – le costellazioni urbane – che riconnettono le parti della città, attraverso un atlante di segni che attingono all’arte, alla cosmologia, all’biologia, all’identità. E gli esempi in tutto il mondo sono innumerevoli, senza andare troppo lontano. La natura ha il compito di riprendersi la città, ma nello stesso tempo la città deve offrire servizi, opportunità. Diventa imbarazzante strombazzare pedonabilità senza prima aver realizzato parcheggi e modi sostenibili per spostarsi. Diventa imbarazzante pensare a prati verdi dove non servono e colate di pietre e cemento lì dove l’acqua non trova più vie di uscite.
Appare scontato, ovvio per molti, ma a guardare i risultati sul campo vale la pena ricordare a tutti:
c’è bisogno di una qualità del progetto che vada oltre l’ordinario; c’è bisogno di una cooperazione (e non partecipazione) tra progettisti, specialisti, amministratori e la città reale (meno quella rappresentata). È necessario ripartire dall’identità, dalla socialità, dalle relazioni. Ovvio per molti, banale se volete, ma serve una visione, un orizzonte, uno spessore culturale che non si trova nelle patatine. Non è un monito esclusivo per chi ha responsabilità amministrative, è una riflessione che investe anche i progettisti (quelli che poi conosciamo come i tecnici) che hanno perso quella vocazione, quel talento, la sensibilità verso lo spazio forse per apatia o superficialità. Hanno perso quella propensione alla multidisciplinarietà che caratterizzava i grandi maestri del recente passato. Il progetto di architettura come sintesi tra città, natura, cultura e tecnologia. Quel tutto tondo che includeva l’arte e la storia. Le piazze e le strade stanno diventando tutte uguali, senz’anima, immagine riflessa di un ufficio tecnico comunale che non ha tempo per pensare. Deve solo spendere e inaugurare. Gli architetti dovrebbero pensare bene a cosa lasceranno di utile alle città. Pietre cinesi e alberelli rinsecchiti.
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