La Manovra 2025 prevede un incremento del Fondo Sanitario Nazionale di 2,5 miliardi, ma la metà di questa cifra era già stata stanziata da quella precedente. E intanto l’inflazione erode l’aumento reale delle risorse. «La sanità italiana affronta oggi numerose criticità, ma la prima è il definanziamento cronico» dice Nino Cartabellotta, Presidente della fondazione GIMBE. Negli ultimi anni i tagli sono stati continui: tra il 2010 e il 2019 pari a oltre 37 miliardi secondo i calcoli del settimo rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale redatto dalla fondazione. I fondi sono aumentati di soli 8,2 miliardi in un decennio, con una crescita media dello 0,9% annuo, un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,15%).
L’emergenza esplosa con la pandemia non ha insegnato nulla?
«Negli anni 2020-2022 il Fondo Sanitario Nazionale è salito complessivamente di 11,6 miliardi, con una media del 3,4% annuo, segnando formalmente la fine dei tagli. Poi tra marzo 2020 e settembre 2022 sono stati emanati 13 decreti legge che hanno stanziato 11.584,3 milioni per la gestione dell’emergenza Covid-19 e per sostenere i maggiori costi energetici. Il netto rilancio del finanziamento pubblico è stato però assorbito dai costi della pandemia, senza consentire un rafforzamento strutturale del SSN e senza riuscire a mantenere in ordine i bilanci delle Regioni».
Qual è il risultato dello stanziamento di fondi disposto dall’ultima legge di bilancio?
«L’aumento reale è di appena l’1%, che porta il totale a 136,5 miliardi. E guardando al futuro la situazione non migliora: a parte un +3% nel 2026, gli incrementi annui del FSN sono risibili: +0,4% nel 2027, +0,6% nel 2028, +0,7% nel 2029 e +0,8% nel 2030».
Ci sono invece misure specifiche per il personale sanitario?
«Purtroppo nell’ultima Legge di Bilancio non si fa molto per invertire la rotta. Le risorse devono coprire rinnovi scaduti e futuri fino al 2030, per un totale di oltre 7 miliardi: tuttavia, escludendo poche briciole, la maggior parte delle indennità, come quelle di specificità per medici, infermieri e altre figure sanitarie, entreranno in vigore solo dal 2026. A questo si aggiunge una grave carenza di personale e drammatiche disuguaglianze regionali: nel 2022 solo tredici Regioni hanno rispettato gli standard minimi dei Livelli Essenziali di Assistenza, i cosiddetti LEA, lasciando ampie fasce della popolazione senza accesso a cure adeguate».
Un quadro sconfortante. Il Servizio Sanitario Nazionale è veramente a rischio di collasso?
«Abbiamo un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa. Ci sono sette nati ogni mille abitanti nel 2023. E una popolazione anziana che rappresenta circa il 24% del totale, motivo per cui la pressione sul sistema è in costante aumento. Questo squilibrio demografico riduce il numero di contribuenti attivi e mette a dura prova la sostenibilità finanziaria del SSN».
La virata verso la sanità privata sembra irreversibile. Quali misure andrebbero applicate alle fasce più deboli della popolazione per evitare che rinuncino alle cure?
«Con una spesa out-of-pocket che nel 2023 ha raggiunto i 40,6 miliardi, serve un intervento deciso e mirato per proteggere le categorie più fragili di cittadini. La priorità è la riduzione dei tempi di attesa nel settore pubblico, che oggi costringono molti a rivolgersi al privato. L’urgenza di agire è dimostrata dai dati: nel 2023 circa 4,5 milioni di italiani hanno rinunciato alle cure sanitarie, di cui 2,5 milioni per motivi economici. E sono proprio quegli “indigenti” a cui la Repubblica dovrebbe assicurare cure gratuite».
Quali sono le principali inefficienze e gli sprechi da correggere nella sanità?
«Le inefficienze spaziano dall’eccesso di prestazioni inappropriate al sotto-utilizzo di quelle appropriate. Il coordinamento dell’assistenza è talvolta inadeguato, gli acquisti sono a costi eccessivi, e poi ci sono frodi e abusi ad aggravare ulteriormente la situazione. Da una parte c’è la necessità di aumentare il valore della spesa sanitaria che rappresenta una strategia per contribuire alla sostenibilità del SSN. Ma dall’altra serve la capacità di recuperare risorse correggendo sprechi e inefficienze. E per farlo occorrono interventi di formazione dei professionisti sanitari, informazione della popolazione e coraggiose riforme strutturali. Il tutto è poi condito da una scarsa digitalizzazione e da una limitata integrazione dei dati sanitari. Una condizione che rallenta i processi decisionali. Tanto per essere più chiari, in questo modo crescono i costi operativi e si riduce l’efficacia delle cure».
Ci sono spese che invece andrebbero potenziate?
«Le priorità di investimento sono evidenti. La prima è aumentare le risorse per il personale sanitario, garantendo contratti stabili e retribuzioni competitive per attrarre e trattenere professionisti qualificati. Poi c’è la sanità territoriale, che deve essere potenziata, con investimenti specifici per le Case di Comunità, le Centrali Operative Territoriali e gli Ospedali di Comunità, fondamentali per rafforzare l’assistenza domiciliare e alleggerire la pressione sugli ospedali. Va seguito un percorso ad hoc per migliorare l’accesso ai servizi sanitari e ridurre gli sprechi. La strada è passare per la prevenzione e l’innovazione tecnologica, in cui vanno incluse la telemedicina e la digitalizzazione. Tutte queste aree devono diventare oggetto di attenzione primaria».
La sanità dovrebbe tornare nelle mani dello Stato?
«Senza dubbio l’attuale frammentazione in ben ventuno sistemi sanitari regionali ha generato profonde disparità. Con il risultato che alcune non riescono a fornire nemmeno prestazioni essenziali, con una situazione particolarmente critica nel Mezzogiorno. Il mio parere è però che la soluzione per ridurre le diseguaglianze non possa essere la ri-centralizzazione della sanità».
Quale direzione andrebbe presa, invece?
«La via è quella di potenziare le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni. Perché a fronte delle risorse assegnate, oggi il monitoraggio sull’erogazione dei LEA si configura più come un accordo politico tra Governo e Regioni. Invece dovrebbe essere uno strumento reale di misurazione della qualità dell’assistenza sanitaria».
Come si possono convincere i giovani a intraprendere percorsi di specializzazione oggi non molto popolari?
«Bisogna rendere le carriere sanitarie più attrattive, il che si traduce in contratti stabili al termine della formazione, che sono fondamentali tanto quanto il miglioramento delle condizioni di lavoro. Va ridotto il carico burocratico e prestata una maggiore attenzione al benessere del personale sanitario, spesso vittima di burnout. Episodi come quello del bando per medici di pronto soccorso andato deserto evidenziano un’urgenza. Urge una riforma dei percorsi formativi e una valorizzazione economica e professionale di chi lavora in settori chiave del SSN».
Come giudica le retribuzioni in ambito medico?
«Gli stipendi dei medici italiani sono nettamente inferiori rispetto a quelli dei colleghi europei. Calcolando in dollari, in Italia il salario medio di un medico è di 116.484 dollari lordi all’anno, contro i 207.397 della Germania o i 172.519 della Francia. Questo divario spinge molti professionisti verso l’estero o il settore privato, aggravando la carenza di personale nel SSN. Anche qui diventa indispensabile allineare le retribuzioni alla media europea e introdurre incentivi economici per i settori più critici, come i pronto soccorso e le aree periferiche, che sono quelli più spesso caratterizzati da carichi di lavoro insostenibili».
Cosa pensa del numero chiuso a Medicina, che alla fine sarà eliminato solo in fase iniziale del percorso universitario?
«È una novità che rischia di generare false aspettative tra gli studenti. Un aumento del numero degli iscritti potrebbe sovraffollare le facoltà e compromettere la qualità della formazione».
La pianificazione del numero di medici è però un intervento giusto?
«È essenziale stimare con precisione il fabbisogno di medici per garantire un equilibrio tra il numero di laureati e le opportunità di inserimento nel SSN. Il primo passo è però agire sull’attrattività del sistema. Altrimenti la conseguenza sarà utilizzare denaro pubblico per “sfornare” più medici che, con questo livello di disaffezione per la sanità pubblica, andranno a lavorare nel privato o all’estero, oppure si dedicheranno alla libera professione».
I medici italiani rappresentano ancora un’eccellenza a livello di preparazione e prestazioni?
«I nostri medici continuano a distinguersi a livello internazionale per la qualità della formazione e per le competenze. Non sempre invece il servizio sanitario riesce a riflettere questo livello di qualità. A comprometterne l’efficacia sono le disuguaglianze territoriali, i ritardi nell’adozione di tecnologie innovative e una cronica carenza di personale. L’impegno costante che, nonostante le difficoltà, i professionisti italiani continuano a dimostrare da solo purtroppo non è sufficiente. Va rafforzato il sistema per valorizzare appieno queste competenze».
Qual è secondo lei un sistema sanitario da prendere a modello?
«Nessuno! Il nostro modello è unico al mondo. Il SSN, fondato su principi di universalità, uguaglianza, equità e finanziato dalla fiscalità generale, tutela un diritto costituzionale. Viene finanziato secondo il principio della redistribuzione dei redditi. Per rilanciarlo serve una visione chiara sul modello di sanità da consegnare alle prossime generazioni, un progressivo e consistente aumento del finanziamento pubblico e riforme decisive che sfruttino appieno le opportunità offerte dalla trasformazione digitale. Solo così potremo garantire un sistema all’altezza delle sfide future». ©
📸 Credits: Canva
Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2025 de il Bollettino. Abbonati!
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