Il mondo questa settimana: telefonata Trump-Putin, Zelensky e la pace, Somalia e Ishiba ricevuto da The Donald

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TRUMP E PUTIN AL TELEFONO

di Orietta Moscatelli

Le prove di disgelo russo-americane sono entrate nel vivo con la telefonata mercoledì tra Donald Trump e Vladimir Putin, blocco di partenza di un negoziato che il presidente Usa vuole trasformare velocemente in una tregua in Ucraina e quello russo nella base per una trattativa molto più ampia.

Il Cremlino ha dichiarato di apprezzare il nuovo approccio americano, poiché mira alla pace, mentre «la precedente amministrazione statunitense riteneva che si dovesse fare tutto il possibile per far continuare la guerra». Il portavoce Dmitrij Peskov ha anche molto insistito sul fatto che non vi sono per ora accordi specifici, né una data per una tregua o il vertice con Trump.

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Putin d’altronde non condivide l’urgenza americana. Anzi la lenta ma costante avanzata sul campo di battaglia consiglierebbe tempi meno sincopati, come pure le tensioni nel suo entourage su come procedere. Quindi per proiettarsi nel ritmo incalzante dell’agenda trumpiana avrebbe chiesto un chiarimento pubblico sulla forza di interposizione da dispiegare dopo la fine delle belligeranze.

E l’ha più o meno ottenuto dal segretario Usa alla Difesa Pete Hegseth, che a Bruxelles ha riservato agli alleati Nato una doccia fredda a più getti, dicendo tra molto altro che a vegliare sulla linea di demarcazione serviranno «capaci truppe europee e non europee». 

Il Cremlino insiste che per evitare un cessate-il-fuoco simbolico e quindi effimero vanno affrontate «le cause profonde del conflitto», ovvero le richieste russe in termini di garanzie di sicurezza. Cose già note, eppure tutto terribilmente nuovo. 

L’ora e mezza al telefono tra Mosca e Washington è il timbro sulla decisione americana di cancellare l’obiettivo dell’adesione ucraina alla Nato e la conferma che Kiev dovrà accettare la revisione dei suoi confini.

E l’applicazione del paradigma «America First» alle relazioni russo-americane si traduce in una prima eclatante vittoria per Putin: a tre anni dall’invasione dell’Ucraina il confronto diretto con l’omologo americano eleva il suo ruolo internazionale e legittima le aspirazioni della Federazione Russa. Anche se ancora tutte da tradurre in realtà.

Per approfondire: Cosa non cambia con la telefonata tra Putin e Trump



GUERRA D’UCRAINA

di Mirko Mussetti

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A seguito della telefonata tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il leader della Federazione Russa Vladimir Putin sull’istituzione di negoziati diretti per la cessazione dei combattimenti in Ucraina, i notabili di Kiev mostrano forti preoccupazioni legate alla futura esistenza stessa dello Stato. 

L’entourage del presidente Volodymyr Zelensky non ha apprezzato né l’esternazione del tycoon sul fatto che “un giorno gli ucraini potrebbero divenire russi o forse no“, né la sua pubblica esitazione sul fatto che l’Ucraina debba essere considerata come membro alla pari nel processo di pace. Il timore a Kiev è che Washington e Mosca possano accordarsi separatamente sul futuro della nazione sarmatico-eusina. 

In via Bankova è ormai chiaro che la Casa Bianca non ha alcuna intenzione di continuare a sostenere materialmente (armi e denaro) la causa ucraina in assenza di solide contropartite politico-economiche. Di qui la pronta offerta dell’ex attore di Kryvyj Rih a fornire al Numero Uno almeno 500 miliardi di dollari in terre rare in cambio del prosieguo dell’ausilio militare a stelle e strisce. 

Ma ci sono due problemi: primo, Trump considera tale offerta come mero risarcimento per l’assistenza americana fornita finora, non per quella a venire; secondo, gran parte di questi preziosi elementi naturali si trovano nei territori occupati dalla Russia nel quadrante sud-orientale dell’Ucraina. 

I vertici di Kiev si trovano spiazzati sotto tutti i punti di vista, mentre i margini diplomatici tendono a restringersi. Il grande obiettivo nazionale, ovvero l’adesione alla Nato, è stata bollata come “irrealistica” dal segretario alla Difesa Usa Pete Hegseth, volato a Bruxelles per presenziare al suo primo vertice dei ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica. Nemmeno l’idea di scambiare la minuscola porzione dell’oblast’ di Kursk (Russia) sotto il controllo delle Forze armate di Kiev con una porzione maggiore dei territori occupati dalla Russia pare far breccia nella mente degli alleati o nella testa del nemico. Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov è stato categorico: “È impossibile che accada”.

Durante il suo primo discorso alla conferenza sulla sicurezza di Monaco (14-16 febbraio), il vicepresidente americano J.D. Vance ha ribadito a chiare lettere il nuovo corso della politica estera americana: l’Europa deve farsi carico degli oneri per la propria difesa, poiché l’America non può sobbarcarsi le esigenze securitarie del Vecchio Continente. Traduzione: se volete la continuazione della guerra, preparatevi a combattere o a sostenerne i costi da soli. 

Per approfondire: Ucraini e russi a confronto

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SOMALIA E USA VS IS

di Luciano Pollichieni

L’offensiva delle autorità del Puntland contro la cellula locale dello Stato Islamico per ora continua a ottenere delle vittorie sì tattiche, ma che rappresentano un importante dividendo per le istituzioni somale sul piano dell’immagine.

A fronte dello stallo nelle regioni centro-meridionali del paese, dove l’attacco contro Al-Shabaab si è arenato nella regione del Giuba e non riesce a ripartire, le operazioni iniziate nel dicembre scorso nel nord sono riuscite a recuperare territorio e a eliminare o arrestare alcune delle figure chiave dell’Is. Ultimo in ordine di tempo, il capo delle forze speciali dell’organizzazione Abdirahman Shirwac Aw-Saciid, che si è arreso dopo i combattimenti nella regione di Bari nell’area montuosa del Cal Miskaad.

Tuttavia e senza minimizzare l’importanza dei risultati sul campo, il vero obiettivo della nuova offensiva del governo di Mogadiscio è sfruttarla per mettere in sicurezza la relazione con gli Stati Uniti a fronte di alcuni (comprensibili) timori rispetto all’operato della nuova amministrazione.

Nelle scorse settimane l’aviazione americana ha sostenuto l’avanzata delle truppe somale in ossequio al programma elettorale di Trump, che aveva promesso di continuare a combattere contro il terrorismo in Africa. Dal punto di vista di Mogadiscio il supporto degli Stati Uniti apre a scenari più rassicuranti per l’esecutivo somalo.

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La presidenza di Hassan Sheikh è infatti preoccupata che le relazioni tra Usa e Somalia potrebbero essere sacrificate sull’altare dell’isolazionismo trumpiano. Soprattutto, il supporto di Washington alle operazioni nel Puntland scaccia il fantasma di un possibile riconoscimento della regione del Somaliland come entità autonoma – alcuni dei consiglieri di the Donald sull’Africa sarebbero favorevoli a questa iniziativa.

L’alleanza Usa-Somalia contro il terrorismo regge alla prova del campo e così sarà finché Washington la percepirà come funzionale.

Per approfondire: La crisi nelle Somalie non riguarda solo la Somalia



ISHIBA A WASHINGTON

di Guglielmo Gallone

Dopo la visita negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, questa settimana il consenso del primo ministro giapponese Shigeru Ishiba è salito, passando da un risicato 39% a un già più solido 45%. Nonostante la voce grossa del tycoon che ha minacciato di mettere dazi se «il Giappone non ridurrà il deficit commerciale nei confronti degli Stati Uniti» e il timore di conseguenze negative provocate dalle restrizioni sull’export di acciaio, in effetti a Washington Ishiba ha ottenuto ciò che voleva.

Sul piano economico Nippon Steel sarà sì esclusa dall’acquisizione del produttore di acciaio americano U.S. Steel ma «vi investirà – ha detto Trump – facendo qualcosa di molto importante per noi». Di più, gli Stati Uniti intendono alimentare il flusso di gas naturale liquefatto verso il Giappone che a oggi continua a importare dalla Russia oltre 6 milioni di tonnellate di gas attraverso un «gasdotto dell’Alaska di cui stiamo discutendo».

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Sul piano geopolitico Ishiba e Trump hanno firmato un comunicato congiunto in cui condannano le «attività provocatorie» della Cina nel Mar Cinese Meridionale «esprimendo forte opposizione per le illegittime rivendicazioni marittime» di Pechino.

Subito dopo il ritorno di Ishiba in patria, la Marina nipponica ha affermato di aver effettuato la prima esercitazione congiunta con le portaerei di Stati Uniti e Francia nel Pacifico. Nel frattempo il primo ministro giapponese ha ricevuto il presidente di Palau Surangel S. Whipps Jr.

I due hanno concordato di rafforzare la relazione speciale («tokubetsu») e di fare in modo che il Giappone s’impegni per lo sviluppo dell’arcipelago nella Micronesia. Un risultato importante ottenuto con uno dei pochi paesi al mondo a riconoscere Taipei.

Anche la prospettiva di colloqui tra Usa e Russia sulla guerra in Ucraina potrebbe giocare a favore di Tokyo. Innanzitutto perché la Russia preoccupa non poco il paese nipponico. A settembre Mosca ha lanciato la più grande esercitazione militare nel Mar del Giappone, mentre lo scorso gennaio due bombardieri russi TU-95 hanno volato per otto ore sul Mare di Okhotsk. Infine perché un possibile accordo tra Washington e Mosca potrebbe ridimensionare il ruolo della Corea del Nord in funzione antioccidentale – e di riflesso antinipponica – nonché le relative minacce di Pyongyang, specialmente quelle militari, sulle acque del Pacifico.

Per approfondire: Navigo ergo sum. Tōkyō si prepara alla guerra per mare


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